The final cut” di Omar Naim
- 2005
C’è chi crede che la fantascienza
racconti (solo?) delle invasioni (sulla terra) di marziani o di altre mostruose
creature dello spazio, delle orribili trasformazioni che subisce il corpo umano
(rimpicciolimenti, protesizzazioni, mutazioni…) o di astronavi che vagano nello
spazio alla ricerca di continenti perduti. Niente di più falso d tutto ciò. La
fantascienza, “genere”, spesso calpestato e deriso dai più, si è sempre posta
dei profondi interrogativi filosofici ed ha provato a formulare risposte
sull’identità dell’uomo, sul senso della vita e della morte, sulla necessità di
preservare nel tempo, difendendoli dalla dimenticanza e dall’oblio, tracce
mestiche, ricordi e memoria.
“Blade runner” (giusto per citare un
film a caso) non narrava del senso d’angoscia di alcuni replicanti Nexus, che
volevano solo essere ri-programmati per poter vivere più a lungo? E il film di
Ridley Scott non declinava (forse), in maniera poetica e struggente, il tema
della memoria e dei ricordi (le foto artefatte dell’inesistente famiglia di
Rachel) ed il senso della vita e della morte (“Ho visto cose che voi umani….E
tutti questi ricordi andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. E’
tempo di morire”)?
Non ci meravigliamo quindi se, sempre
più frequentemente, registi (giovani e non) utilizzino il “genere” SF per
incursioni (più o meno riuscite) su questi affascinati e complessi temi. Omar
Nair, al debutto dietro la macchina da presa, con il suo “The finale cut”, ne è
un fulgido esempio. In un imprecisato futuro, i ricchi e premurosi genitori si
rivolgono alla Zoe Tech, una multinazionale specializzata nell’impiantare, nel
cervello del bambino appena nato, un micro-chip tutta la sua vita. Quando il
soggetto morrà, un ”montatore” selezionerà i momenti più importanti ed
emozionanti della sua esistenza e ne farà un film, da proiettare, in una
cerimonia pubblica, nel corso del “rememory” del defunto.
In questo settore, il più bravo in
circolazione è Alan Hakman (Robin Williams), un tipo taciturno, totalmente
immerso nel lavoro, immune da coinvolgimenti emotivi e maestro nel ripulire la
vita del defunto da peccati, compromessi, difetti ed errori. Una biondina (Mira
Sorvino) è la sua unica compagnia e la donna, inutilmente, tenta di scuoterlo
dal suo torpore affettivo. Ma per Alan tutto fila liscio anche se un gruppo di
contestatori tatuati, urla, per strada, slogan del tipo: “Ricorda a
modo tuo” e “Non è compito nostro vedere con le pupille degli
altri. E’ compito di Dio e solo di Dio”.
La loro scelta, radicale ed assoluta, li
ha spinti a tatuarsi il corpo con del materiale sintetico, per poter disattivare
i circuiti audio e video dei micro-chip che sono gli hanno impiantati da
piccoli. Un ex montatore, passato dalla parte dei ribelli, prova,
inutilmente, a convincere Alan a passare dalla loro parte, ma lui, candidamente,
si auto-assolve, paragonandosi ad una vecchia figura della tradizione: “Sai
chi era il mangia-peccati? Lo chiamavano in occasione di un decesso. Era un
escluso della società, un emarginato. Prendevano il cadavere e gli mettevano del
sale e del pane sul torace e delle monete sugli occhi. Lui mangiava il pane ed
il sale e si teneva i soldi come pagamento. Facendo questo assorbiva tutti
i peccati del defunto, tirando a lucido la sua anima, in vista del passaggio
nell’aldilà.“
E quando gli viene affidato il compito
di montare il rememory di Bannister (un alto funzionario della Zoe Tech) Alan si
imbatterà in un drammatico episodio del passato, che ha condizionato tutta la
sua vita. Un finale confuso ed affrettato chiuderà la storia.
Più che una riflessione filosofica sul
tema (Come lasciare ai posteri un imperituro ricordo del nostro fugace passaggio
sulla terra?) sembra che il giovane regista, di origine libanese, voglia
proporre allo spettatore una meta-riflessione sull’uso del montaggio delle
immagini che operiamo (inconsapevolmente) con la nostra mente, sia al cinema che
nella nostra vita reale. Quando siamo, immersi nel buio della sala
cinematografica, in che modo montiamo, nella nostra mente, i fotogrammi
che stiamo vedendo? In base a quale criterio operiamo dei tagli? Cosa
conserveremo nella nostra memoria? Quali immagini cancelleremo e perché? Perché
mai quella determinata immagine ha innescato in noi, ricordi sepolti e
dimenticati?
Peccato che il giovane regista
ventisettenne, abbia dissipato, così banalmente, una storia che avrebbe potuto
avere uno sviluppo narrativo diverso e che necessitava di un arredo visivo più
fantastico e di un pizzico di originalità in più. Del resto, il tema del
recupero dei ricordi era stato già trattato (in maniera più acida) in “Strange
days” e le immagini video dei defunti, tratteggiate (con maggiore profondità) in
“Cosa fare a Denver quando sei morto”. Dopo “One hour photo” ed “Insomnia”,
Robin Williams ritorna ad un thriller dalle atmosfere lugubri ed oscure, ma,
incartapecorito ed impacciato, regala allo spettatore una recitazione fin troppo
vigilata e composta. Mira Sorvino, relegata nella parte della bella (?)
statuina, non ha alcun peso nella vicenda ed appare incerta e smarrita.
Falle narrative a parte, Omar Naim, si
era avvalso di ottimi collaboratori; per la fotografia di Tak Fujimoto (Il
silenzio degli innocenti, Il sesto senso, Signs) e per il montaggio di Dede
Allen. Quando si dice che una buona squadra, alle volte, non conta. Per
concludere: un dubbio cinefilico. Ma il cognome che il regista ha scelto di dare
al protagonista (Hakman senza la “C”) è una citazione al montatore (audio) de
“La conversazione” di Francis Ford Coppola? Dimenticavo. Incertezze a parte, c’è
una cosa che Naim sottolinea con forza, nel suo film: non fidiamoci della nostra
memoria, perché, nel tempo, la nostra mente confonde sia i ricordi che “il
sangue con la vernice”. Sbaglio o qualcosa del genere l’aveva già detta, circa
un secolo fa, un certo Maestro viennese?