Shame
Brandon (Michael Fassbender), trentenne
dirigente di successo newyorchese, nasconde nei doppifondi della propria anima
un vuoto incolmabile. Incapace di allacciare relazioni affettive stabili e
significative (la sua più lunga storia sentimentale è durata quattro mesi), può
fare solo sesso (violento) con prostitute e, non pago delle riviste osé che
accumula in casa, ama masturbarsi, guardando i siti porno con i quali è
costantemente collegato. Sua sorella minore Sissy (Carey Mulligan), una cantante
con la voce di un usignolo, ma sola e sbandata quanto lui, e con un tentato
suicidio alle spalle, piomba in casa sua, alla disperata ricerca del suo
affetto. Brandon, sempre più in crisi con se stesso, si sente soffocato dalla
sua presenza e non perde l’occasione per litigare con lei. La tensione sale e la
vicenda si chiude in un crescendo sempre più mesto e cupo.
Dopo il successo di
Hunger, pellicola d’esordio che
ruotava intorno alla tragica vicenda di Bobby Sands, eroe-simbolo della
resistenza nord-irlandese contro gli invasori inglesi, Steve Mc Queen (regista
londinese omonimo del divo hollywoodiano degli anni Settanta) dirige un film
disturbante che ruota intorno all’infelice protagonista, vittima delle proprie
fantasie autodistruttive. L’ingresso in campo della tenera e disarmante Sissy
amplificherà ancora di più il clima claustrofobico e mortifero che aleggia nella
pellicola. Brandon, interpretato da Fassbender, Coppa Volpi a Venezia come
miglior attore, non è l’erotomane vitellone di provincia di
Paolo il caldo di Marco Vicario, né
tantomeno l’ingenuo, infantile ed un po’ superficiale Bob Crane di
Autofocus.di Paul Shrader ma un uomo
incapace di mettere ordine nella propria vita che finirà, inevitabilmente, per
scivolare in un disperato “cupio dissolvi”.Da antologia Carey Mulligan che canta
“New York, New York”.
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