Intervista a Valia Santella

 

Figlia d’arte. Già assistente dei più talentuosi registi napoletani (Antonio Capuano, Pappi Corsicato, Mario Martone e Gabriele Salvatores) ha deciso di fare il grande salto e di esordire dietro la macchina da presa.

“Il mio è un esordio tardivo, ma è frutto dell’educazione familiare di tipo artigianale. Ho sempre pensato che fosse importante partire dalla gavetta e di imparare sul campo.”

La sua voce tremula tradisce però una sgusciante emozione. Chi parla è Valia Santella, giovane regista napoletana. Il suo primo lungometraggio s’intitola “Te lo leggo negli occhi” e verrà presentato al  prossimo Festival del cinema di Venezia, nella Sezione Orizzonti, il 3 settembre e contemporaneamente in tutte le sale italiane.

“Mi sento una bella responsabilità già nell’aver fatto il film. Il cinema è un’impresa così enorme che implica, non solo il coinvolgimento umano di tante persone ma, anche un notevole sforzo economico. Farla poi con una casa di produzione così importante come la Sacher, ti spinge poi a raddoppiare i tuoi sforzi. In verità non avevo la sceneggiatura nel cassetto, ma dopo aver girato per i Diari della Sacher “In nome del popolo italiano” è stato lo stesso Nanni Moretti che mi ha motivato e mi ha spinto a fare il grande salto. Il confronto con lui è stato per me una grande scuola. La sua presenza ti obbliga, ti spinge ad essere sempre esigente ed a chiederti il perché delle tue scelte. Nanni mi ha insegnato che è bene non accontentarsi della tua prima impressione anche se poi, nel corso del tempo, tu stessa deciderai poi se riacciuffarla e farla nuovamente tua.”

E quando ironizzo sul fatto che l’ombra di Moretti potrebbe allungarsi troppo su di lei e sul suo film, prontamente mi risponde che Nanni per lei non è un ostacolo ma solo una presenza. Il titolo scelto per il film è un riferimento ad una nota canzone del 1970, scritta da Sergio Endrigo, musicata da Sergio Bardotti e cantata da Dino. Ma il film della Santella non è uno dei tanti “musicarelli” che si producevano in Italia negli Anni Sessanta. La storia, tutta declinata al femminile narra di tre donne.  Margherita (Stefania Sandrelli) è una cantante in crisi, a seguito di un grave danno subito alle corde vocali. Sua figlia Chiara (Teresa Saponangelo) è una logopedista. Ed è già questi due elementi mettono in moto innumerevoli  deconnessioni.

"Il titolo fa riferimento ad un primato della vista sulla parola. Le professioni delle due protagoniste rimandano, inevitabilmente, ad un’attenzione agli scambi verbali interrotti, ai silenzi pesanti ed ingombranti che si frappongono fra le due donne."

 E che ruolo, infine, avrà nel film la piccola Lucia (Camilla De Nicola)? Conflitto generazionale, dunque, ma (forse) anche e soprattutto la storia della una ricerca di contatto emotivo dal quale le parole hanno già disertato.

“Queste due donne hanno perduto la capacità di comunicare e di dirsi semplicemente le cose. La scelta che Chiara facesse la logopedista è stata forse una scelta inconscia  che era presente in fase di sceneggiatura che ho scritto con Heidrun Schleef e non nel soggetto iniziale che avevo elaborato con Linda Ferri. La cosa non è nata in maniera così razionale come potrebbe sembrare.”

Il film si avvale della presenza di molti attori napoletani tra i quali spiccano Mariano Rigillo, Ernesto Mahieux, Tonino Taiuti e la protagonista Teresa Saponangelo.

“Mi serviva un’attrice così passionale come Teresa. Con lei ho lavorato a sottrarre. Lei doveva incarnare una donna dotata di un energia molto forte, ma implosa e che non doveva apparire spenta.”

Per la solare Stefania Sandrelli, dopo “Mignon è partita”, “Evelina e i suoi figli” e “L’ultimo bacio”, l’ennesimo ruolo di mamma.

“Anche nei film precedenti Stefania incarnava il ruolo di madre ma ci sono storie di mamme e di mamme e con caratteristiche diverse da film a film. Nel mio, pur essendo centrale la relazione madre-figlia, Margherita è soprattutto una donna. Sia lei che Chiara sono due persone adulte e ben definite. L’importante per me era sopratutto raccontare una storia che parlasse di sentimenti e dei legami che si instaurano tra le persone.”

E quando le chiedo se la sua storia è una delle tante storie “buoniste” del cinema italiano, “due camere e cucine” e con un prevedibile lieto fine, mi saluta con un enigmatico sorriso.

 

L'articolo- Redazione napoletana del "L'Unità" - 27.8.2004

 

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