Rabbit Hole
di
John Cameron Mitchell con
Nicole Kidman,
Aaron Eckhart, Miles Teller,
Dianne Wiest – USA – 2010 – Durata
Sono passati otto mesi da quando Danny, il loro bambino di quattro anni, è stato investito da un automobile guidata da Jason (Miles Teller), un adolescente vicino di casa. Da quel giorno Becca (Nicole Kidman) e Howie Corbett (Aaron Eckhart) vivono come sospesi, in un tempo bloccato, provando a mettersi alle spalle quel tragico episodio. Howie va a lavorare, gioca a squash e, nel vano tentativo di rendere più soffice il dolore, spinge Becca a frequentare una terapia d’auto-aiuto per genitori che hanno perso un figlio. Implosa, silenziosa e sempre più taciturna, Becca si consola dandosi al giardinaggio, alla cucina e cancellando in casa ogni traccia che le ricorda il bambino; Howie, all’opposto, rivedendo, all’infinito, sul telefonino le immagini di Danny. Per spezzare quell’irrespirabile cappa che l’opprime, Becca decide di vendere la casa ma Howie s’oppone; la tensione tra i due si taglia a fette e le incomprensioni sono all’ordine del giorno. Ad amplificare ancora più il dolore di Becca la gravidanza della sorella ed il fantasma della morte per overdose di Arthur, il fratello trentenne, avvenuta undici anni prima ed a cui la madre Nat (Diane West) fa costantemente riferimento. E proprio quando la coppia è sul punto di deflagrare, Becca trova conforto parlando con Jason e Howie frequentando una donna conosciuta al gruppo d’auto-aiuto. Un finale consolatorio chiude la vicenda.
Con mano ferma ed il giusto rigore, John Cameron Mitchell racconta il dramma di chi, senza autocommiserazione, prova ad affrontare, giorno dopo giorno, il mestiere del vivere ed a seppellire nell’oblio un evento che non è possibile dimenticare. In maniera un po’ scolastica Cameron Mitchell contrappone Howie, un uomo che, seppur ancora molto legato emotivamente a Danny, vorrebbe voltar pagina, uscire con gli amici e mettere in cantiere un altro figlio e Becca, una donna spezzata dentro, al punto da non poter concedersi un attimo di piacere. E quando Howie, rabbioso, l’affronta e le urla in faccia: “È come se tu volessi far sparire le prove che lui è stato qui. Non hai forse tolto i disegni dal frigorifero? E i suoi vestiti? Vuoi vendere la casa. Non ci sono più foto sue in giro, non ci sono più le sue impronte, non c’è niente. Maledizione! Devi smetterla di cancellarlo, devi smetterla, capisci?” , Becca non può che rispondergli: “Pensi veramente che io non lo veda ogni singolo secondo di ogni singolo giorno. Sembra che io non mi senta abbastanza male per te, che non provi abbastanza dolore. Ma cosa vuoi da me? Lui è dappertutto. Vedo le sue impronte sulle maniglie delle porte, vedo i suoi passi, il suo seggiolone. Tu non devi startene lì tutto il giorno a fissarle, tu puoi andartene al lavoro, puoi scappartene.” Successivamente, in una delle scene cardine del film, Becca impacchetta tutto quello che apparteneva al figlio e lo custodisce in degli scatoloni in cantina. Dopo averli fissati per qualche attimo, con lo sguardo carico di rimpianto e di nostalgia, chiede alla madre: “Non se ne va mai via?” . Lei, con tono affettuoso, le risponde “No, non credo, almeno a me non è successo. Va avanti da undici anni ma diventa diverso. Non lo so. Il peso che è diverso; ad un certo punto diventa sopportabile, si trasforma in un peso da cui puoi liberarti, strisciando e che ti porti dietro, in tasca, come un mattone. Addirittura lo dimentichi, per un po’, ma poi ti metti la mano in tasca per qualche ragione ed eccolo lì. Oh, giusto, quello! Il che potrebbe essere tremendo ma non è sempre così. E’ un po’, ecco, non è esattamente che ti piace ma è quello che hai al posto di tuo figlio e allora lo tieni con te, così e non se va mai, il che è un bene, in realtà.” Il regista lascia fuori campo la scena dell’incidente del piccolo Danny e mostra al rallenti il volto di Becca che si trasfigura non appena ha compreso cosa è accaduto ed emette un urlo, il cui suono è lasciato volutamente off. La pellicola seppur vibrante e commovente non è però esente da imperfezioni; le immagini sono un po’ troppo laccate ed i personaggi, fin troppo formali, composti ed educati, da sembrare imbalsamati. Non mancano però dei graffi qua e là e qualche battutina acida e corrosiva di Becca che, non sopportando le virate cattoliche del gruppo d’auto-aiuto, ad una coppia, convinta che la morte del loro bambino faccia parte di un disegno di Dio che ha voluto un altro angelo in Paradiso, ad alta voce, replicherà: “Perché allora non ha creato un altro angelo. Lui è Dio, poteva farlo, no?” Il titolo del film rimanda sia ad Alice nel Paese delle Meraviglie che ad un fumetto, disegnato da Jason, che fa riferimento ad una rete di gallerie che portano ad un universo parallelo dove si potrebbe riemergere ed essere felici, dimentichi del proprio dolore.
Recensione pubblicata su Psycomedia - 30 - 7- 2011