Omaggio a Pier Paolo Pasolini
Ci manca. In questo asfittico panorama
intellettuale una voce libera e lontana dal coro come quella di Pier Paolo
Pasolini avrebbe fatto certamente la differenza ed illuminato molte coscienze
sopite. Sono trent’anni che non sentiamo più levare la sua voce e sono certo che
se fosse ancora tra noi non si limiterebbe solo a bacchettare il corteo di nani
e ballerine che accompagnano i nostri ottusi politici nostrani, ad attaccare
l’imperante televisione spazzatura, ad irridere il cinema degli effetti speciali
di spielbergiana memoria e la letteratura usa e getta dei best sellers seriali.
Sono certo: Pasolini, pensatore lucido e scomodo, avrebbe continuato a rompere
gli steccati dell’imperante omologazione culturale e con le sue esternazioni ci
avrebbe aiutato a guardare oltre. Chi non ricorda il suo storico e coraggioso
schierarsi al fianco dei carabinieri sottopagati del profondo sud ed i suoi
feroci attacchi contro i ricchi contestatori figli di papà?. Come dimenticare i
suoi articoli apparsi sul Corriere della Sera che facevano inorridire la Chiesa, attenta solo agli
intrallazzi e agli intrighi di potere? La borghesia e la sinistra militante non
digerivano questo scomodo intellettuale e lo odiavano, per motivi diversi, ma
con la stessa intensità. La critica ed il mondo del cinema a stento lo tollerava
e la sua omosessualità pesava come un macigno sulla sua figura.
Pasolini, a distanza di anni, resta un punto di riferimento culturale
insostituibile, non solo per la sua attività di romanziere e di squisito teorico
cinematografico ma soprattutto per la sua insaziabile, cristallina e
spregiudicata sete di libertà. Prima di essere barbaramente ammazzato ad
Ostia, Pasolini aveva diretto dal 1961 al 1975 più di una decina di pellicole,
alcune discutibili e discontinue (Il Decamerone, I racconti di Canterbury e
Il fiore delle mille e una notte, Salè o le centoventi giornate di Sodoma)
altre dotate di un grande impatto visivo ma troppo statiche e legnose (Porcile,
Edipo re, Medea). Generalmente la critica concorda nel considerare La
ricotta e La terra vista dalla luna, Accattone, Il vangelo secondo
Matteo, Uccellacci e uccellini i suoi capolavori. Tutte queste opere
meriterebbero un’ampia ed appassionata riflessione. Per ragioni di opportunità,
mi limiterò a commentare Teorema, pellicola che il regista diresse nel
1968 e che io reputo il suo film più poetico e più compiuto. In sintesi la
trama. Milano Il postino Angelo (Ninetto Davoli) consegna ad un ricco
industriale (Massimo Girotti) un telegramma che l’informa che l’indomani
giungerà a casa sua l’Ospite (Terence Stamp). Il giovane, un ragazzo
atletico, taciturno ed appassionato lettore di Rimbaud, con la sua magnetica
presenza ed il suo fascino silenzioso metterà in moto le intorpidite emozioni di
Lucia (Silvana Mangano) la moglie insoddisfatta dell’industriale e dei due
inquieti figli della coppia; Pietro (Andrés Josè Cruz Soublette) ed Odetta
(Anne Wiazemsky). L’Ospite scava dentro i diversi personaggi e li
costringe a guardarsi dentro e a fare i conti con se stessi; Lucia, trascina,
inutilmente, la propria inutile esistenza, senza coltivare un minimo interesse;
Pietro è paralizzato all’idea di dover prendere contatto con la propria
omosessualità; Odetta vive, come in un mondo fatato, ripiegata nel passato
familiare. Dopo l’incontro con l’Ospite nessuno sarà più lo stesso di
prima; Lucia, dopo aver preso contatto con il proprio vuoto interiore vagherà in
auto per la città rimorchiando adolescenti; Pietro, dopo aver accettato la
propria “diversità”, riuscirà a dar vita alla propria incerta e caotica vena
creativa; Odetta ha un crollo psicotico ed è ricoverata in una clinica
psichiatrica. Il capofamiglia, marito frustato ed un industriale insoddisfatto,
dopo aver deciso di donare la propria fabbrica agli operai, si denuderà
completamente per vagare poi senza meta nella stazione di Milano. Perfino Emilia
(Laura Betti) la governante di casa darà ascolto alle proprie istanze mistiche e
dopo aver miracolato un ragazzo affetto da un inguaribile malattia, ascenderà,
come un angelo, sul tetto di un vecchio cascinale. Pasolini compone un’opera
strutturata intorno ad un archetipo narrativo (l’arrivo di un estraneo che
sconvolge la regolare vite di una famiglia) ma lo utilizza come pretesto per
raccontare i fallimenti e le delusioni del mondo borghese. Si sono scritti fiumi
di inchiostro sulla enigmatica figura dell’Ospite inneggiante, per gran parte
della critica, ad un ritorno al mistico, al sacro, alle radici primitive del
mondo contadino ma il film è così altamente evocativo e ricco di simbolismi che
non lo si può soffocare con una riduttivistica rilettura. Da un punto di vista
psicoanalitico, l’Ospite non può che non essere inteso che come una sorta di
specchio in grado di permettere agli aspetti scissi e negati dei diversi
protagonisti di uscire allo scoperto. Il regista dosa con il contagocce i
dialoghi e l’Ospite disvela l’inconscio dei diversi personaggi solo attraverso
il proprio sguardo e pronunciando, in tutto il film, solo qualche parola.
Pasolini cita Tolstoi, ci offre una delle più straordinarie riflessioni sulla
pittura e sulla creazione artistica ed impreziosisce il film con la musica di
Wolfang Amedeus Mozart. Indimenticabili le scene di Emilia che abbagliata dalla
bellezza interiore dell’Ospite tenta il suicidio con il gas e sul finale del
film, in pieno delirio mistico, si nutre solo di ortiche. Quando uscì la
pellicola destò un fiume di polemiche, fu sequestrata e stroncata dalla critica
benpensante per la sua visione cupa e senza speranza della borghesia italiana;
quella di sinistra, dal canto suo, non le riservò un trattamento migliore,
giudicandola troppo criptica e velleitaria. A distanza di anni, il film
non è affatto sfiorito e mantiene intatta la propria straordinaria modernità al
punto che registi come Francois Ozon (Sitcom) Ferzan Ozpetek (La
finestra di fronte, Cuore sacro) e Patrice Leconte (L’uomo del treno)
hanno replicato, recentemente, lo stesso impianto narrativo. Pasolini ci
lascia, dunque, un vuoto incolmabile e tra i numerosi contributi teorici che ha
proposto per aiutarci a comprendere la complessità del dispositivo
cinematografico, a me piace ricordarlo per questa sua lapidaria e straordinaria
riflessione: “Non c’è parola a cui non si accompagna fulmineamente
un’immagine. Non c’è parola così astratta che non susciti in noi,
contemporaneamente alla sua pronuncia o alla sua apparizione scritta, una
qualche immagine.”
La Voce
della Campania- Numero 1 – Gennaio 2006
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