Il mio migliore amico di Patrice Leconte -2007

 

Come si costruiscono le storie? Di che cosa deve narrare un film? Si può elogiare un film borghese? L’ultima fatica di Patrice Leconte pone, primariamente, questi interrogativi. Il film si apre con la scena di un funerale, in una chiesa semideserta. François non sembra molto turbato e, al termine della cerimonia, accenna alla vedova di un mobile che il defunto voleva acquistare prima di morire. Un attimo dopo è in una prestigiosa galleria d’arte dove è in corso un’asta di oggetti antichi. Il banditore mostra un vaso ellenico del quinto secolo A.C. che raffigura Patroclo e Achille e narra della leggenda di un uomo che, afflitto per la morte del suo amico, lo riempì di lacrime. Travolto da un impulso irresistibile, François lo compra per un prezzo proibitivo, strappandolo a Delamotte, un appassionato collezionista. Non ci vuole molto a comprendere che qualcosa d’inconsapevole ha smosso l’inconscio dell’imperturbabile, freddo e impassibile mercante d’arte.

Il regista sceglie tre oggetti femminili (la bara, il vaso e le lacrime), per accogliere il dolore inespresso del protagonista e portarlo allo scoperto. Con un tocco leggero, Leconte viola quel patto segreto che garantisce una distanza di sicurezza tra autore e spettatore in sala che, nudo e senza maschera, non può fare a meno di fare i conti con se stesso. Come quel vaso antico, che un tempo fu ricolmo di lacrime, saturi ed ebbri di emozioni, ripiegati in noi stessi, siamo spinti a desiderare che sullo schermo non scorra più nessun fotogramma. Come mai Leconte scopre subito le carte e non lascia che la povertà affettiva del protagonista sia svelata, passo dopo passo, nel corso della narrazione? Perché impagina un inizio così accecante che contiene già in sé tutta l’essenza del film? Che sia questo il suo tratto distintivo è noto (chi non ricorda gli inizi travolgenti de Il marito della parrucchiera, di Confidenze troppo intime?) ma il quesito resta irrisolto. Può un film ruotare, impunemente, (e soltanto) intorno a un sentimento come quello dell’amicizia? C’è chi punta lo sguardo sui mali della società, sugli orrori della guerra, sulla corruzione politica, sugli affari delle lobby, sugli intrighi del potere, e perlustrano, indagano, denunciano, scavano fuori; altri, come Leconte, non si muovono sui piani orizzontali ma su quelli verticali. Il regista francese non sceglie una narrazione eroica e muscolosa, non impagina il solito dramma fatto di sudore, lacrime  e sangue ma sceglie di parlare di un tema (quello dell’amicizia) che sembra desueto, retrò e maledettamente borghese. Ma proprio questa sua scelta controcorrente spiazza e ti toglie il respiro. Con questo film Leconte sembra riscrivere le regole del gioco e suggerire che, al di là delle cifre stilistiche, la vera rivoluzione passa prima per la conoscenza di noi stessi. Forse è banale, ma necessario.

 

Recensione pubblicata sulla Rivista Segno Cinema N. 144 - 2007

 

 

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