Lidia Tarantini

Senatore: Tu hai curato con Lella Ravasi Bellocchio il numero speciale della Rivista di Psicologia Analitica. Era un numero sul cinema con un bellissimo titolo: "Felicità e patologia dell'immagine". Ricordo che mi invitasti a Capalbio a commentarlo. Nel volume "Curare con il cinema" ho inserito anche il mio intervento "Cinema e psicoanalisi" che lessi in quell'occasione. Ero curioso di sapere cosa ne pensavi della mia ultima fatica letteraria... 
Tarantini: La prima cosa che ho pensato è che il tuo libro è un libro ingannatore... perché ha la leggerezza di un sorriso, però è un sorriso ammiccante e sornione... perché pone degli interrogativi e delle domande sul significato della cura, sul potere terapeutico delle immagini al cinema. Quello che mi ha colpito é il metodo che hai usato; parti da alcuni concetti "forti" ( per esempio; l'alcolismo, il trauma, il lutto, i rapporti tra la memoria e l'oblio, la narrazione in psicoterapia, la funzione dell'immagine, l'uso dell'empatia..) ma é come se tu riuscissi a stemperare tutto questo materiale "pesante" in una sorta soluzione ad alta intensità cinematografica. Tu non parti dal cinema per derivarne una teoria ma al contrario la teoria si trasforma in immagini e sequenze cinematografiche. Il tuo libro è una raccolta di dialoghi e di sceneggiature cinematografiche sull'argomento. Questo tuo libro é una vera miniera di informazioni e di notizie...E sembra che tu voglia dirci che possiamo raccontarci delle storie, utilizzare il mondo infinito di immagini che il cinema crea, come una sorta di mitologia dei giorni nostri...Mi ero ricordata di un articolo di Gnoli, su "La Repubblica", in cui lui dice che "il cinema é un modo per raccontare intorno ai nostri dei e ai nostri demoni, alle nostre illusioni e quel mondo di ombre e di luci che é stato il mito ha lasciato il posto al mondo di ombre e di luci che é il cinema". Noi potremmo anche aggiungere al mondo di ombre e di luci che é un viaggio nella psiche. Quindi mito, psiche, cinema... Anche Calvino parla nelle "Lezioni americane" ci dice che "dentro di noi é sempre in funzione una sorta di cinema mentale, prima ancora che il cinema fosse stato inventato. Questo cinema interno non cessa mai di introiettare immagini alla nostra vita interiore e le sue soluzioni visive sono determinanti e talora arrivano inaspettatamente a decidere di situazioni che le risorse del linguaggio non riuscirebbero a risolvere." Non c'é solo, una capacità mitopoietica e creativa del nostro cinema interno ma c'è, anche, la possibilità "curativa" del cinema. Tu ci dai una sfida, non una soluzione...Il tuo libro termina, non a caso, con una "provocazione": "...Curare con il cinema: No, forse, chissà..."
Senatore: Ma secondo te, si può "curare" con il cinema?
Tarantini: Il discorso è complesso ma è innegabile che vi siano numerose analogie tra lo stile cinematografico e lo stile del sogno. Freud dice che il sogno pensa soprattutto per immagini visive, con le quali drammatizza un'idea e il tipo di pensiero che utilizza nel sogno é quello del processo primario, che è un pensiero pre-logico (quello che utilizza meccanismi come la condensazione, lo spostamento, la metonimia, una temporalità non lineare, uno spazio non sequenziale), esattamente come il cinema. Un'altra analogia é la non coincidenza tra il contenuto manifesto e il contenuto latente, sia nel sogno che nel film. Nel film, esiste sempre la possibilità di una lettura metaforica, che non é sempre chiara e cosciente, neanche all'autore stesso del film, come se il film contenesse un di più di significato, una sorta di sporgenza di senso, inconscia, che, nel caso del cinema é spesso la critica ad evidenziare, nel caso del sogno é l'interpretazione...Un terzo elemento é una sorta di potere di auto-guarigione sia per chi fa un film che per chi sogna ... Anche il sogno ha un potere auto-terapeutico anche per il solo fatto di essere stato fatto. Sognare fa bene alla psiche a prescindere dall'interpretazione ed è terapeutico...Fellini, dopo aver girato "8 e mezzo" (come sai ha fatto un'analisi junghiana) dice: "Non so dire esattamente cosa farò dopo questo film ma, posso dire, con molta sincerità, che esso mi ha fatto veramente bene...Io so che adesso potrei fare qualsiasi cosa, perché è nuovo il modo di guardare ed anche il modo di amare. Potrei anche cominciare daccapo tutta la mia carriera, rifare tutti i miei film, naturalmente, in modo profondamente diverso,  perché, in effetti, mi sembra che tutto quello che é successo a Guido nel film, in realtà sia successo a me."  
Senatore:   Come concluderesti quest'intervista?
Tarantini: Vorrei sottolineare la particolare condizione psichica dello spettatore cinematografico, definita di "veglia sognante", di "allucinazione paradossale", di "vertigine psichica", di "coscienza sospesa e non assente". E' uno stato particolare che non è l'inconsceità ma non è neanche di coscienza. Io credo che la prima relazione che si insatura tra lo spettatore del film resta proprio all'interno di quello che Lacan chiama "il registro dell'immaginario", cioè all'interno di quella relazione duale pre-simbolica, la cui caratteristica é quella di uno sdoppiamento, immediato, tra la coscienza e il suo altro. In questa condizione la coscienza non é assente ma è sospesa. Dice Barthes: "L'immagine mi cattura, mi rapisce, mi incolla alla rappresentazione e per quanto io sia seduto lontano dallo schermo, incollo il naso fino a schiacciarlo a quell'altro immaginario nel quale mi identifico narcisisticamente. E' questa colla a fondare la naturalità della scena del film per quanto irreale possa essere. Solo l'immagine è vicina, solo l'immagine è vera." Questo é il primo impatto dello spettatore di fronte all'immagine filmica, é questo incollarsi, è questo identificarsi, sospendendo il giudizio della coscienza e questo ovviamente ricorda quella che è chiamata la "fase dello specchio" che, è la prima d'incollamento con il materno. Per decollare da questa identificazione con l'immagine, c'è bisogno di un temine terzo che permetta di attivare una distanza. Si esce dall'ipnosi attraverso il pensiero della parola. Parlare del film, raccontarlo, tradurlo in parole è un'operazione che permette di riprendere la distanza. E non è un caso che si può parlare di un film, se siamo stati coinvolti, se ci siamo incollati al film, non subito dopo. C'è un momento di latenza, c'è un momento in cui, se qualcuno ci chiede: "Ti è piaciuto?", "Che ne pensi?", lo sentiamo come un disturbo, perché abbiamo bisogno di un attimo di digestione e solo in un secondo momento possiamo parlare. Possiamo parlare e quindi passare dall'immaginario al simbolico, da un registro materno ad un registro paterno che è il registro della parola. Barthes dice: "L'immaginario scompare nel momento stesso in cui è osservato". Noi potremmo dire che l'immaginario scompare nel momento stesso in cui è detto. 

 

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