Last days di Gus Van Sant
La musica ha spesso avuto la
funzione di colmare l’indicibile, di intervenire laddove gli sguardi dei
protagonisti divenivano insufficienti, di far da cerniera alle diverse sequenze
filmiche, di sottolineare i passaggi cruciali che si susseguono
all’interno di una tessitura narrativa. Dopo lo storico Il cantante di jazz
del 1927 sono stati scritti fiumi d’inchiostro sulla sua funzione extranarrativa
all’interno di un film. Territorio dell’impalpabile e del sublime, ha dato vita
a diversi generi cinematografici. I “musicarelli” erano pellicole italiche a
basso costo costruite su misura per evidenziare le doti canore di Gianni
Morandi, Bobby Solo, Little Tony, Al Bano e di tante altre ugole nostrane. La
trama narrava, generalmente, di due adolescenti che, trafitti dalle frecce di
Cupido, s’innamoravano a prima vista e dopo qualche banale incomprensione e
l’immancabile scenata di gelosia, si lasciavano di colpo. Dopo lacrime, pianti e
sospiri la tanta attesa riappacificazione avveniva grazie all’esibizione canora
dell’attore/cantante protagonista che, come d’incanto, scioglieva il cuore
dell’amata che ritornava di corsa tra le sue braccia.
I “musicarelli”, strutturati
con una trama banale, intervallata da canzonette orecchiabili e di facile
ascolto, ebbero intorno agli Anni Sessanta in Italia un grande successo popolare
perché mettevano in scena delle storie candide e pure. Le nostre ugole d’oro
erano i classici ragazzi della porta accanto e la spettatrice in sala poteva
cullare il sognare di incontrare, un giorno, anche lei il grande amore della
loro vita. Se l’Italia è stata la patria di film s/canzonati l’America ha
prodotto, invece, all’opposto, una serie di pellicole che hanno come
protagonisti rockstar turbolenti e dannati. Last days di Gus Van
Sant, ispirato agli ultimi giorni di Kurt Cobain, morto suicida il 18 aprile
Il film narra le ultime ore
di Blake (Michael Pitt) un giovane musicista dai capelli biondi alla disperata
ricerca di se stesso. Occhiali scuri, una maglietta sdrucita ed un jeans
sfilacciato, s’aggira senza scopo in una vecchia villa disadorna e
semi-abbandonata. Il regista evita sapientemente di non cadere nelle secche del
biographic ed azzera talmente i riferimenti allo storico leader dei Nirvana al
punto che, per tutta la durata del film, non c’è traccia di nessun concerto, né
si ascolta un brano musicale della mitica band. Blake è lontano mille miglia dal
divo eccentrico e sregolato che ha calcato i palcoscenici di mezzo mondo ed il
regista ce lo mostra come un fantasma che strimpella un po’ la chitarra, indossa
una sottoveste da donna, sgranocchia qualcosa da mangiare, si tuffa in un fiume
e scambia qualche monosillabo con un signore che vuole vendergli delle
inserzioni pubblicitarie sulle Pagine Gialle. Niente sesso, droga e rock’n’roll,
nessun accenno a Cortney Love ed all’adorata e piccola Frances ma solo delle
scene che ritraggono uno (anonimo) sbandato che non riesce a fronteggiare i
propri fantasmi interni che lo spediranno diritto all’inferno. Van Sant avrebbe
potuto impaginare un melodramma fiammeggiante ma sceglie di non concedere nulla
alla curiosità dello spettatore, evitando perfino di far riferimento alla
famosissima lettera-testamento che il musicista lasciò prima di suicidarsi e
contenente la storica frase: “E’ meglio bruciare con una fiammata che spegnersi
lentamente. Come è sua abitudine il regista spiazza tutti e dopo averci mostrato
un film su Kurt Cobain senza che vi sia traccia di Kurt Cobain, ci propone,
all’opposto, la vicenda di una rockstar smarrita e confusa che implode in se
stesso, consumandosi, ora dopo ora, fino a morire. Non siamo dalla parte di
Elephant e la storia, scandita da un ritmo ossessivamente lento, non
deflagra nel finale ma scorre, inesorabilmente, fino all’epilogo senza alcun
colpo di scena. Il regista non maschera la macchina da presa che in/segue
costantemente il protagonista per tutta la durata del film e non disdegna
qualche piccolo esercizio di stile (un paio di carrelli laterali ed all‘indietro
dal grande impatto emotivo).Lacerante, intenso, disperato.
Recensione pubblicata sulla Rivista "Eidos- Cinema, Psiche ed arti visive" Numero 5- 2006