La
kryptonite nella borsa
Napoli. 1973. Peppino Sansone (Luigi Catani), un bambino di nove anni, occhialuto, timido ed impacciato, è figlio di Rosaria (Valeria Golino) e di Antonio (Luca Zingaretti).Il suo amico immaginario è Gennaro, un cugino morto sotto un autobus che, mantellina in spalla, credendo di essere Superman, era ossessionato dall’idea che qualcuno potesse nascondere della kryptonite nella borsa. Rosaria scopre che il marito la tradisce, cade in depressione e, divorata dalla tristezza e dall’apatia, trascorre le giornate a letto. Peppino è affidato agli zii, Titina (Cristiana Capotondi) e Salvatore (Libero De Rienzo), due simpatici scapestrati che lo portano in giro nelle loro alternative scorribande in città. Grazie al trattamento analitico con il dottor Mattarrese (Fabrizio Gifuni), Rosaria si mette alle spalle la depressione e, dopo una serie di colpi di scena, il sereno torna a risplendere in casa Sansone.
C’era un volta il “camp”, quel gusto, quella sensibilità caratterizzata dall’amore per tutto ciò che é artificioso, eccedente, eccessivo e che secondo Roland Barthes trasformava un oggetto di “supplemento di significazione” allorché, trasfigurato, diventava altro da sé.
I primi film di Pedro Almodovar, volutamente kitsch, ironici e scherzosi sono diventati i manifesti incontrastati di quello stile troppo precocemente, caduto nell’oblio.
Ivan Cotroneo passerà (forse) alle cronache per essere stato il primo regista (italiano e non solo) a dirigere un film “vintage”, una pellicola imperniata tutta sulla moda della moda, sulla citazione dell’usato e degli oggetti di culto in voga negli anni Settanta.
Il regista napoletano spiazza, infatti, lo spettatore impaginando una vicenda che più sull’intreccio narrativo punta tutto (grazie al talento del costumista Rossano Marchi) sulla sfilata “in passerella” degli strabilianti maglioncini, delle cravatte colorate e sgargianti, dei pantaloni a zampa d’elefante, delle giacche dalla forgia fantasiosa e dei vestiti attillati, corti e coloratissimi, indossati dai personaggi della vicenda.
Cotroneo ricostruisce gli anni Settanta e li immerge in un’atmosfera dal sapore fiabesco, depurandoli dalle lotte di studenti ed operai, delle stagioni stragiste e degli scontri di piazza che impazzavano, furiose, al tempo, In una Napoli finalmente né lazzarona, né folkloristica, attraversata dai venti del femminismo (da cartolina la scena delle militanti del collettivo che bruciano i reggiseni), dalla rivoluzione degli hippy e dei “figli dei fiori”, si muovono smarriti e spaesati il l’ingenuo e miope Peppino, incapace di difendersi dai bulli della classe, e Gennaro, il suo stralunato amico immaginario che funge da angelo custode. Le battute non mancano, la colonna sonora è gustosa ed accattivante (tra i brani spicca l’irresistibile “These boots are made for walking”) ed il cast è sugli scudi; Valeria Golino sempre più misurata nella recitazione, Cristiana Capotondi e Libero De Rienzo impeccabili nei panni degli scoppiati ed alternativi zii di Peppino e Luca Zingaretti, sornione, in quelli dell’impenitente traditore che regala al figlio tre pulcini che nomina, con un eccesso di fantasia, Primo, Secondo e Terzo.
In questa pellicola, volutamente diseguale e senza una vera e propria trama, Cotroneo sembra voler sfidare lo spettatore ed incitarlo ad una sorta di disubbidienza nei confronti di quelle storie che, come ricordava Michelangelo Antonioni, “se chiuse in un loro alveo non lasciano sprigionare l’immaginazione dello spettatore e non gli permettono di vedere ciò che c’è al di fuori della storia”. Come ogni pellicola “perfetta” non mancano però i nei e le imperfezioni; fin troppo banale la love-story tra Rosaria ed il suo analista, prevedibile e scontato il tardivo pentimento di Antonio e troppo insistite le apparizioni di Gennaro che, dapprima intrigano e divertono, ma poi perdono di mordente e finiscono per essere ripetitive. Un esordio che squarcia il vetusto panorama italiano e che ricorda, per freschezza, spregiudicatezza ed originalità, Libera di Pappi Corsicato.