Psycho cult di Ignazio Senatore
Introduzione
Sorprendere il lettore trasportandolo in un altrove a lui sconosciuto,
mettere in moto la sua immaginazione, intercettare sguardi dispersi; non sono
forse questi alcuni degli obiettivi di un volume?
Antonioni dichiarò che l’idea de
Il grido gli era venuta in mente mentre guardava un muro. Io non ho la
fervida immaginazione del Maestro ferrarese e per scrivere di cinema devo
costantemente essere nutrito dalle immagini in movimento, lasciarmi inondare
dagli sguardi dei protagonisti, farmi cullare dalle parole, dai brusii e dai
rumori di fondo che impreziosiscono una pellicola.
Il cinema è un’arte sinestesica ed, immerso nel buio della sala, sogno
di andare alla deriva e di perdermi tra le pieghe del film.
Potrei dire che questo volume nasce dopo aver rivisto, qualche mese fa,
in rapida sequenza La tomba di Ligeia
di Roger Corman, Gli artigli dello
squartatore di Peter Sands e
L’orribile segreto del dottor Hichcock di Riccardo Freda.
Queste pellicole di genere, così cariche di fascino e di mistero, mi
avevano abbagliato sia per la poetica e struggente rappresentazione della
follia, intesa come un elemento tragico ed imponderabile che si abbatte sul
singolo protagonista, che per la raffigurazione
della psicoanalisi, letta come una scienza romantica e pionieristica che
cercava di scavare nella profondità degli abissi dell’animo umano.
Senza che me ne accorgessi un percorso di ricerca era ormai tracciato
dentro di me e, dopo aver rivisitato i classici del cinema horror americano ed
inglese, rispolverai alcune pellicole nazionali prodotte intorno agli Anni
Sessanta – Settanta. Anche in questo caso fui sorpreso nello scoprire come
Sergio Bergonzelli, Mario Caiano, Beppe Cino, Mino Guerrini, Tonino Ricci,
Romano Scovolini ed altri registi, per lo più sconosciuti al largo pubblico,
avevano rappresentato la pazzia in una maniera assolutamente malsana, insolita
ed originale.
Nella mia riscoperta dei B movie, mi
imbattei nel filone etichettato “giallo erotico italiano” ed in alcuni di questi
film, liquidati banalmente come pellicole trash, comparivano attrici (Edwige
Fenech, Serena Grandi, Barbara Bouchet …) ricoverate in cliniche psichiatriche o
affette da incubi e da allucinazioni.
Il materiale raccolto, già sorprendente,
non aveva esaurito la mia sete di conoscenza che mi spinse ad andare alla caccia
di altre pellicole di genere (commedie, drammatici, fantascienza, hard, noir,
thriller, western…) per verificare se la rappresentazione della follia e dei
vari analisti in celluloide fosse sovrapponibile a quelle delle pellicole
analizzate in precedenza. Dopo averne avuta un’ulteriore conferma, decisi di
rompere gli indugi e di confezionare questo piccolo dizionario dei film di
genere. Ma cosa si intende veramente per
“genere”?
Generalmente, vengono così definite alcune pellicole caratterizzate da
una serie di tratti comuni, sia da un punto di vista narrativo che formale,
facilmente riconoscibili dal pubblico.
In un western deve sbucare un cow-boy, in un musical i protagonisti
devono cantare e ballare, in un giallo non può mancare un cadavere. E’ pur vero
che con il passare degli anni queste “guide”, questo patto finizionale che lega
il regista allo spettatore, sono sempre più venute meno, al punto che si fa
fatica a classificare certi film.
Sette spose per sette sorelle è un
musical o un western, Blade runner un poliziesco, un film di fantascienza o un post-noir?
I cinefili più incalliti potrebbero obiettare che l’adesione o meno ad
un genere non è data tanto da un certo tipo di ambientazione ma da una precisa
scelta stilistica del regista; in un western non possono mancare i campi lunghi
che inquadrano i silenziosi e maestosi paesaggi del selvaggio West, un noir non
può non prediligere le atmosfere notturne.
La faccenda si complica ulteriormente se analizziamo film come
Un pugno di dollari. E’ una pellicola
western o è un film d’autore? Mi si potrebbe, infine, obiettare che nell’era del
postmoderno dove la parola d’ordine è “contaminazione”, che senso ha ancora
parlare di genere?
Queste premesse teoriche spero abbiano chiarito in che terreno spinoso
mi sono andato a cacciare. Insidie a parte, la sfida lanciata da questo volume è
quella di rivalutare soprattutto quel cinema basso, made in Italy, vituperato
per decenni da parte del pubblico e recentemente sdoganato da Quentin Tarantino
e da una certa critica militante e di dar lustro a Francesco Barilli, Alberto De
Martino, Fernando Di Leo, Riccardo Freda, Umberto Lenzi, Sergio Martino,
Brunello Rondi e a tutti quegli onesti artigiani della machina che nei loro
B-movie hanno descritto deliri, allucinazioni, incubi e stati d’angoscia in
maniera più convincente e visionaria di tanti altri registi più blasonati.
Come ogni eccezione che conferma la regola, il lettore non deve
meravigliarsi se di tanto in tanto, al fianco di registi sconosciuti,
s’imbatterà in alcuni Maestri del cinema.
Completa il volume una serie di interviste ad attori e a registi che ho
raccolto, in qualità di critico cinematografico de “L’Articolo” (inserto a cura
della Redazione napoletana de L’Unità) in questi ultimi due anni. Buona visione
a tutti.