Leonardo Gandini

 

"Ci sono due cose che vorrei dire sul tuo libro che mi è apparso molto bello ed interessante...La prima cosa è che questo libro si apre con le affermazioni di uno psicologo americano che si chiama Solomon, il quale cerca di convincere i suoi pazienti a diventare "cinefili", nella convinzione che se i propri pazienti frequentassero con assiduità le sale cinematografiche trarrebbero delle indicazioni che, probabilmente, potrebbero aiutarli a risolvere i loro problemi psicologici....Leggendo questo libro ho avuto una gran voglia di diventare un "paziente", di compiere il percorso opposto proprio perché, in qualche modo, potendo frequentare il cotè psicoanalitico, nella condizione di paziente, potrei comprendere meglio alcune cose sulla possibilità terapeutica del cinema, che è l'argomento di questo libro...Cioè, sino a che punto, il cinema può aiutare a vivere meglio la nostra quotidianeità...Da questo punto di vista, il tuo libro è una piccola miniera, basandosi non tanto sul principio che sarebbe molto banale (non solo sul rispecchiamento di problemi e psicopatologia sul grande schermo) quanto sull'idea che sia il cinema  che la terapia siano in qualche modo accomunati da un'idea di narratività, per la quale il raccontare ed ascoltare le storie si può vivere meglio...Mi piacerebbe chiederti se ( al di là dei tanti film da cui vengono estrapolati i dialoghi, dialoghi che secondo te sono indizi di problemi psicologici, di malattie...) sarebbe possibile guardare il cinema anche dal punto di vista della "messa in scena" e chiederti fino a che punto questa ricerca, un po' da minatori ( cioè scavare dentro il cinema alla ricerca di indizi che ci possono ricondurre alla psicopatologia e alla sintomatologia...) fino a che punto sarebbe possibile rinvenire qualcosa di utile che non pervenga tanto dai dialoghi, al piano dei comportamenti verbali dei personaggi, quanto al piano della gestualità e al modo in cui i personaggi sono "messi in scena"...Quindi attraverso i primi piani piuttosto che attraverso il campo lungo, quindi attraverso il montaggio piuttosto che al movimento di macchina e al campo-controcampo...Tu, nell'ultima parte del libro accenni a questo, al modo di raccontare del paziente...Tu spieghi molto bene questo: ci sono dei pazienti che raccontano storie in maniera molto diversa l'una dall'altro e nel loro modo di raccontare le storie (naturalmente chi ne ha le possibilità professionali per farlo) è possibile individuare alcuni problemi piuttosto che altri...Ci potremmo chiedere, fino a che punto si potrebbe arrivare ad una sorta di "psicopatologia" del regista cinematografico? Proseguendo il discorso,  Tu fai degli esempi molto interessanti, in riferimento a dei pazienti che si appropriano, in qualche modo di episodi di film che hanno appena visto, mescolandoli alle proprie esperienze e raccontando in seduta degli episodi che fanno passare in parte come propri o che hanno lasciato su di loro alcune sequenze di film...Mi chiedo, fino a che punto, (stando nell'ottica di Salomon) il film può aiutare a star meglio...un cinema che banalizzi e volgarizzi le questioni che sono care alla psicoanalisi....Cioè, fino a che punto può funzionare meglio un film di verdone che un film di Polanski? Fino a che punto un cinefilo può considerare banale, schematico, mediocre nella rappresentazione di determinati temi può, paradossalmente, avere un flusso migliore di un film che vi è superiore da un punto di vista estetico, eccede in raffinatezza, in sofisticatezza formale?"

Bologna 4 giugno 2002

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