"Ci
sono due cose che vorrei dire sul tuo libro che mi è apparso molto bello ed
interessante...La prima cosa è che questo libro si apre con le affermazioni di
uno psicologo americano che si chiama Solomon, il quale cerca di convincere i
suoi pazienti a diventare "cinefili", nella convinzione che se i
propri pazienti frequentassero con assiduità le sale cinematografiche
trarrebbero delle indicazioni che, probabilmente, potrebbero aiutarli a
risolvere i loro problemi psicologici....Leggendo questo libro ho avuto una gran
voglia di diventare un "paziente", di compiere il percorso opposto
proprio perché, in qualche modo, potendo frequentare il cotè psicoanalitico,
nella condizione di paziente, potrei comprendere meglio alcune cose sulla
possibilità terapeutica del cinema, che è l'argomento di questo libro...Cioè,
sino a che punto, il cinema può aiutare a vivere meglio la nostra
quotidianeità...Da questo punto di vista, il tuo libro è una piccola miniera,
basandosi non tanto sul principio che sarebbe molto banale (non solo sul
rispecchiamento di problemi e psicopatologia sul grande schermo) quanto
sull'idea che sia il cinema che la terapia siano in qualche modo
accomunati da un'idea di narratività, per la quale il raccontare ed ascoltare
le storie si può vivere meglio...Mi piacerebbe chiederti se ( al di là dei
tanti film da cui vengono estrapolati i dialoghi, dialoghi che secondo te sono
indizi di problemi psicologici, di malattie...) sarebbe possibile guardare il
cinema anche dal punto di vista della "messa in scena" e chiederti
fino a che punto questa ricerca, un po' da minatori ( cioè scavare dentro il
cinema alla ricerca di indizi che ci possono ricondurre alla psicopatologia e
alla sintomatologia...) fino a che punto sarebbe possibile rinvenire qualcosa di
utile che non pervenga tanto dai dialoghi, al piano dei comportamenti verbali
dei personaggi, quanto al piano della gestualità e al modo in cui i personaggi
sono "messi in scena"...Quindi attraverso i primi piani piuttosto che
attraverso il campo lungo, quindi attraverso il montaggio piuttosto che al
movimento di macchina e al campo-controcampo...Tu, nell'ultima parte del libro
accenni a questo, al modo di raccontare del paziente...Tu spieghi molto bene
questo: ci sono dei pazienti che raccontano storie in maniera molto diversa
l'una dall'altro e nel loro modo di raccontare le storie (naturalmente chi ne ha
le possibilità professionali per farlo) è possibile individuare alcuni
problemi piuttosto che altri...Ci potremmo
chiedere, fino a che punto si potrebbe arrivare ad una sorta di
"psicopatologia" del regista cinematografico? Proseguendo
il discorso, Tu fai degli esempi molto interessanti, in riferimento a dei
pazienti che si appropriano, in qualche modo di episodi di film che hanno appena
visto, mescolandoli alle proprie esperienze e raccontando in seduta degli
episodi che fanno passare in parte come propri o che hanno lasciato su di loro
alcune sequenze di film...Mi chiedo, fino a che punto, (stando nell'ottica di
Salomon) il film può aiutare a star meglio...un cinema che banalizzi e
volgarizzi le questioni che sono care alla psicoanalisi....Cioè, fino a che
punto può funzionare meglio un film di verdone che un film di Polanski? Fino a
che punto un cinefilo può considerare banale, schematico, mediocre nella
rappresentazione di determinati temi può, paradossalmente, avere un flusso
migliore di un film che vi è superiore da un punto di vista estetico, eccede in
raffinatezza, in sofisticatezza formale?"
Bologna 4 giugno 2002
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