Ezio Alberione

Milano 6 giugno 2002
"Io partirei da una frase del tuo libro..."Deponi le mappe, le cartine e gli altri tradizionali e rassicuranti strumenti di navigazione. Non cercare un approdo sicuro." Mi sembra che questa sia un po' la dichiarazione di metodo fatto da questo libro che nonostante la divisione per argomenti tematici, in realtà è una grande "imitation voyage" all'interno del cinema. La cosa più interessante del tuo libro è, a mio avviso, proprio la scelta della narratività. In qualche maniera il cinema si è sviluppato come racconto di storie. George Lucas dice: "Movies are story telling" ed effettivamente la stragrande maggioranza del cinema è costituito su storie, su narrazioni per immagini. Nel libro dici che i film finiscono ad essere apparentati ad "accadimenti psicologici in forma di storia". In un passaggio successivo citi Arnheim " Pensare esige immagini e le immagini contengono pensiero"...E questo è molto interessante...Da questo punto di vista credo che l'operazione che è dell'analista, del terapeuta, dello spettatore è sul binario della de-costruzione della storia. Mi è sembrato, inoltre, molto interessante rispetto ad una questione che mi sono spesso chiesto; nel momento che vediamo un film siamo di fronte ad una finestra o se siamo di fronte ad uno specchio? Cioè se sto guardando qualcosa al di fuori di me, l'altro da me o se sto guardando me, quel me sconosciuto che poi corrisponde ad un altro da me?...In un'altra parte del libro fai riferimento a quelle strutture narrative, tipiche del "genere" (e che ha la capacità d'intercettare l'attenzione del grande pubblico): " E le nostre classificazioni nosografiche non si basano, come gli indicatori di "genere", sulle ridondanze e sulla serialità dei sintomi dei nostri pazienti. Nel nostro genere di narrativa, le trame non sono le nostre teorie?" Questo mi sembra uno dei passaggi più chiari ed illuminanti del libro perché mi costringe a chiedermi, di fronte ai film che vedo, quali sono le storie che io mi racconto? E perché mi rispecchio in questa storia... Da questo punto di vista, il titolo, forse, può trarre in inganno...Io credo che possa essere vero come "medicina omeopatica"...cioè ci si cura con piccole inoculazioni di elementi patologici ma credo che valga sopratutto come un paragone, come un confronto con una serie di casi virtuali di pazienti immaginari e nello stesso tempo come educazione alla varietà, alla singolarità degli approcci. Mi sembra che questo libro restituisca quella verità che è solo dei grandi medici e dei grandi terapeuti, cioè che prima della malattia esistono i malati e che il problema è con la relazione, con la storia del paziente e non con la sua patologia...Mentre rivedevo certe immagini (perché uno dei pregi di questo libro è la tua ricerca certosina sulle sequenze, sui passaggi più significativi di certi film che appartengono nella stragrande maggioranza alla memoria collettiva) mentre pensavo che ci fossimo persi, intrappolati nella varietà dei casi, in realtà, trovo quell'unità antropologica che dà senso al libro ed è quello che tu chiami "l'insaziabilità del desiderio"...Tu scrivi: "L'uomo è alla continua caccia di una sensazione di pienezza. Platone rappresenta la natura umana sotto forma di una giara sfondata, di piviere (un uccello che mangia e defeca nello stesso tempo), di recipienti che non si possono mai colmare...." Sentire questa mancanza spiega l'origine di tante situazioni patologiche e nello stesso tempo dà conto di un'attitudine di fondo dello spettatore che è innamorato delle immagini e che ama un'assenza e che si perde sempre un po' in un film... Una critica? Il personaggio di "Matrix" l'hai scritto sbagliato...Si chiama Neo e tu hai scritto Mio, come il formaggino..."

 

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