Intervista a Michele Soavi

 

Voler pareggiare i conti con il passato; sembra essere uno dei leit-motiv del cinema italiano attuale. Dopo il “Il sol dell’avvenire” film-documentario di Giovanni Fasanella e Gianfranco Pannone, sul gruppo che diede vita alle Brigate Rosse, ecco uscire nelle sale l’ultimo film di Michele Soavi “Il sangue dei vinti”, tratto dall’omonimo romanzo di Giampaolo Pansa. Ed è già polemica.

Regista di “Dellamorte Dellamore”, cult-movie esistenzial-necrofilico, tratto dai fumetti di Tiziano Sclavi, il papà di Dylan Dog, allievo di Lamberto Bava e Dario Argento, dopo anni di televisione, Soavi ritorna sul grande schermo con un film ambientato in Italia, tra il luglio del 43’ e la primavera del 45’. La vicenda narra di un poliziotto (Michele Placido) che si nutre di una propria idea di morale e di giustizia e della sua famiglia che si spacca perché il fratello (Alessandro Preziosi) diventa partigiano e la sorella (Alina Nedelea) appoggia la Repubblica di Salò. La pellicola riecheggia “Il vento che accarezza l’erba” di Ken Loach ed è arricchita da un cast di prestigio: Barbora Bobulova, Giovanna Ralli, Stefano Dionisi e Philippe Leroy. 

La materia è esplosiva e va trattata con cura.” afferma deciso il regista. “Il progetto che era partito per la televisione e sposava dei canoni prestabiliti. Mi stimolava l’idea di raccontare qualcosa che non era stata mai trasportata al cinema prima di allora e che è stata tenuta nascosta negli ultimi 70 anni. Di fronte a tali problematiche, così delicate e scottanti, mi rendo conto che l’argomento cinema sfugge e gli aspetti estetici finiscono per essere messi in secondo piano.” Soavi è sereno e rifiuta qualsiasi etichettatura politica al suo film: “Su questo progetto in particolare, si parla dando sfogo alle proprie ideologie politiche. Durante la lavorazione mi sono sentito libero. Io non faccio politica e racconto le storie che mi piacciono. Del resto la mia famiglia era, come i personaggi del film, contraddittoria; mio padre era un repubblichino per cultura e mia madre ebrea. Il messaggio del film vuole porre l’attenzione sulla “pietas”, sul fatto che dopo la morte i cadaveri sono tutti eguali. La mia pellicola desta indignazione e funge da detonatore perchè su quel periodo storico c’è una fortissima “non riappacificazione”. La guerra è guerra e tutto quello che è successo in quel periodo lo si faceva per cultura o per appartenenza e si doveva necessariamente sposare una causa.”

A chi, provocatoriamente, lo accusa di aver abbandonato l’horror ed il cinema di genere per andare ad arricchire la già folta schiera dei tanto osannati registi italiani “d’autore”, Soavi, ribatte:

 “L’horror è diventato un lusso. Da tanto che sto cercando un bel soggetto, ma sono tutti fermi alle tradizioni. Il seme è rimasto lì e tutto quello che faccio è una ragione visiva che non rinnegherò mai. In televisione, poi, in questi anni, ho portato avanti quel cinema di genere classificato come il “poliziottesco”.  

 

Articolo pubblicato su EPOLIS 15.5.2009

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