In fondo al cuore  (The deep end of the ocean)

di Ulu Grosbard con Michelle Pfeiffer, Treat Williams, Whoopi Goldberg, Ryan Merriman, John Kapelos, Jonathan Jackson, - USA – 1999 – Durata 105’

 

Beth Cappadora (Michelle Pfeiffer), fotografa di successo sposata con Pat (Treat Williams), decide di recarsi con i bambini a Chicago per partecipare ad una festa di ex compagni di liceo. Nella confusione che regna nella hall, il figlio Ben, secondogenito di tre anni, scompare misteriosamente e le ricerche affidate a Canfy Bliss (Whoopi Goldberg) non approdano a nulla. Passano gli anni; Beth non si dà pace e non riesce a rassegnarsi a voltar pagina; Pat, un uomo molto più superficiale di lei, crede che sia possibile azzerare tutto mettendo al mondo un altro figlio. Qualche anno dopo l’intera famiglia si trasferisce a Chicago. Una mattina Sam (Ryan Merriman), un ragazzo di nove anni bussa alla loro porta e, per raggranellare qualche dollaro, chiede se può falciare l’erba del loro giardino. Beth non ha dubbi ed è convinta che sia il suo Ben. Bliss riapre le indagini e scopre che Sassy Lockard, una compagna di classe di Beth, aveva perso il proprio bambino e, dopo un ricovero in una clinica per malattie mentali, aveva rapito Ben (ribattezzandolo con il nome di Sam), si era  sposata qualche anno dopo con George Karras (John Kapelos) e qualche anno dopo era morta suicida. Il giudice stabilisce che il ragazzo deve tornare a vivere con i propri genitori ma Ben è ancora molto legato a George, un uomo dolce e protettivo che gli ha donato l’anima e gli era stato sempre vicino e fa scintille ogni qual volta incrocia Vincent (Jonathan Jackson) il fratello maggiore.

Un finale consolatorio e venato da un pizzico di ottimismo chiude la vicenda.

Il regista, già autore del magnifico e sottovalutato Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me? e del romantico Innamorarsi impagina un film toccante ed intimista che sembra strutturato inizialmente come un thriller e che si adagia poi sui lidi di un dramma dai toni morbidi ed intimisti. Più che narrare la sofferenza di una madre che deve elaborare il dolore per la perdita del proprio bambino e descrivere lo scompagimento di un gruppo familiare che si trova a fare i conti con la perdita (seppur temporanea) di un proprio componente, al regista interessa scavare, perlustrare ed andare a fondo nella psicologia del piccolo Ben, un ragazzino sensibile e tormentato che, dopo essere stato sottratto per anni al calore del proprio nucleo familiare ed allevato da una donna affetta da problemi mentali, si ritrova sballottato tra due adulti (la madre e George) che lo reclamano e desiderano prendersi cura di lui. La stessa Beth, mostrando doti di grande sensibilità ed umanità, avendo compreso la sofferenza del figlio, pur di non sconquassare il suo equilibrio psicologico, è disposta a fare un passo indietro ed, in una scena centrale del film, dice al marito: “Non si ricorda di noi. Non siamo neppure chi siamo. Stiamo trattenendo quel ragazzo contro la sua volontà. E’ come sei rapitori fossimo diventati noi, adesso. Dobbiamo ridarlo a George.” Con grande mestiere Grosbard tiene unita la vicenda che non scivola mai nel lacrimevole e nel banale ma tiene fin troppo ai margini della vicenda la figura di Pat, descritto come un padre anaffettivo ed incolore. Tratto dall’omonimo romanzo di Jacqueline Mitchard.

 

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