Intervista a Giuseppe Ferrara

 

Testardo, lucido, coerente. Questi gli aggettivi che possono meglio fotografare Giuseppe Ferrara. "Il sasso in bocca", "100 giorni a Palermo", "Giovanni Falcone", "Segreti di Stato", "I banchieri di Dio- Il caso Calvi" sono alcune delle straordinarie pellicole da lui dirette.

Scrittore fecondo ed autore di numerosi saggi sul cinema (su tutti "Manuale di regia" Ed.Riuniti) lo ascolteresti per ore, discettare sulla macchina cinema.

"Il cinema è un'arte collettiva. Quando metto l'occhio nella macchina da presa non vedo solo per me ma soprattutto non devo dimenticare che il cinema non è solo immagine in movimento ma è percezione audiovisiva. Leopardi può chiudersi nella sua stanzetta da solo e scrivere "L'infinito". Io devo scrivere pensando anche a quelli che faranno il film insieme a me."

Erede di Francesco Rosi, Ferrara non si sente affatto solo ed elegge, come suoi fratelli spirituali, registi che hanno fatto grande la storia del cinema: Ken Loach, Costa-Gavras ed Oliver Stone. Letteralmente conquistato da quest'ultimo, proclama di aver visto un suo struggente documentario sulla Palestina, il più bello mai visto in vita sua.

"Sono profondamente cristiano e penso che bisogna morire per gli altri, dare se stesso agli altri. Ma la mia cristianità è profondamente laica. Credo che nell'epoca in cui viviamo abbiamo bisogno d'ideologie positive. Ci sono registi che usano il cinema come letteratura. Penso ad Antonioni, a Bergmann. Per me fare cinema è fare storia. C'è modo e modo di fare storia. Lo puoi fare con un documentario come lo ha fatto recentemente Moore con il suo "Fahreneith 9/11" o facendo dei film. Io non punterei mai la macchina da presa sul mio ombelico ma solo e soltanto sulla realtà esterna che impegna il mio essere. Per questo ho scelto un cinema non allusivo o di fiction. Il mio è fatto con nomi e cognomi."

Romantico sognatore è consapevole della complessità della vita che gli sta intorno.

"La realtà non la posso cambiare ma quando un professore di Reggio Calabria mi dice che dopo aver visto i miei film, li mostra ad i suoi allievi per delle lezioni di storia, allora capisco che ho fatto centro. Sono consapevole che non posso cambiare il mondo ma se riesco a spostarlo anche solo di un millimetro, che bello! Il mio film sul generale Dalla Chiesa è passato varie volte in TV e l'ha visto un italiano su due. Credi che non abbia smosso nessuna coscienza?"

E quando, per stuzzicarlo un po', gli ricordo che anche un film sull'amore può essere politico, non solo accetta questa mia definizione, ma rilancia, dichiarando il suo amore per "L'ultimo tango a Parigi" di Bertolucci. Scarta l'ipotesi di essere funzionale al sistema e per validare ancor più la sua ipotesi, mi racconta un piccolo aneddoto.

"Non tantissimo tempo fa, dopo il mio ultimo film "I banchieri di Dio" accennai ad un mio progetto ad un mio amico produttore. Lui andò alla RAI ed accennò ad un funzionario l'idea. La cosa sembrò interessargli ma quando il mio amico gli disse che a dirigerlo dovevo essere io, il solerte funzionario, si alzò di scatto e gli disse: "La riunione è finita." La verità è che dopo aver girato "Il caso Moro" sono stato fermo cinque anni e che fino a che non cade Berlusconi non mi faranno fare nessun film."

Convinto di essere dalla parte della ragione, confessa che nella sua lunga carriera artistica, non ha mai avuto cedimenti.

"I toscani sono dei grandi bestemmiatori. Ricordo ancora mio nonno quando lo faceva; sembrava un poeta. Ma si sa, la bestemmia è contemporaneamente un atto di fede ed una sfida a Dio. Ti supero, ti sputo in faccia e tu mi puoi anche uccidere per questo dopo che ho bestemmiato. Se dovessi scegliere una definizione per me sceglierei proprio questa. Con i miei film sono un bestemmiatore perché sfido i poteri occulti dello Stato. La verità è che viviamo in un paese ipocrita e privo di spina dorsale."

 

Per l'intervista completa si rimanda al volume "Psycho cult" di Ignazio Senatore (Centro Scientifico Editore-2006)

 

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