Close up- Rivista di cinema - N.17 - Novembre 2005- Febbraio 2006

“Essere o non essere un altro”

di Mazzino Montinari

Montinari: In che termini la psicoanalisi è interessata al cinema? E che attenzione nutre per la figura degli attori? 

Senatore: Sin dai suoi albori, la psicoanalisi si è occupata delle motivazioni inconsce che sottendono il processo artistico. Basti pensare agli scritti di Freud del 1910 su Leonardo d Vinci e del 1913 sul Mosè di Michelangelo. E se possiamo affermare che sono numerosi gli studi  sulle opere pittoriche, sui testi teatrali e letterali, scarsi sono quelli sulla psicologia dell’attore. Sono note a tutti le avversioni di Freud per il cinema e divenuti proverbiali i rimbrotti che lanciò ai suoi allievi Abraham e Sacks per aver collaborato alla sceneggiatura del film di Pabst “I misteri di un anima”. Non tutti sanno, però, che nel 1931 Yvette Guilbert, una famosa cantante-interprete del tempo, chiese a Freud di esprimere la sua opinione sulla psicologia dell’attore. Gli chiedeva, nello specifico se fosse giusto ritenere che l’artista, una volta salito sul palco, “perdesse” la propria identità. Il padre della psicoanalisi le rispose che non riteneva affatto che un attore rinunciasse alla sua personalità ma che “solo alcuni elementi di essa sarebbero stati eliminati”. In una seconda lettera che le inviò, scrisse: “Davvero non ho alcuna intenzione di darvela vinta, al di là del confessare che ne sappiamo così poco. Guardi ad esempio Charlie Chaplin. Indubbiamente è un grande artista, sebbene sia riconosciuto il fatto che egli interpreta sempre lo stesso personaggio, il debole, povero, inerme giovanotto, per il quale tuttavia alla fine tutto si risolve bene. Crede davvero che egli abbia dovuto dimenticare il proprio ego nell’interpretare quella parte?”.

Montinari: Come si spiega il fatto che in ogni tempo e luogo c'è sempre stata la figura dell'attore? Ci sono sempre stati individui che hanno voluto fare gli attori e collettività che desideravano vederli. Come spieghi questo fenomeno?

Senatore: Il recitare, come tutte le forme artistiche ed espressive è, secondo il modello psicoanalitico, una modalità di sublimare una pulsione sessuale. C’è chi ha ipotizzato che alla base della scelta di diventare attore ci sia un atteggiamento “fallico” (il suo bisogno di “primeggiare“) o viceversa quello femminile (sedurre e farsi riempire dal pubblico). A parte queste motivazioni inconsce, si ritiene che gli artisti scelgono questo “mestiere” soprattutto per placare i loro bisogni narcisistici ed esibizionistici. “La finestra sul cortile” di Hitchcock non sottolinea, invece, al contrario il bisogno voyeuristico dello spettatore?

Montinari: Può accadere, tuttavia, che lo  spettatore si abbandoni alla visione di un film portando in superficie qualcosa che o non conosceva o rimuoveva costantemente. In un certo senso, il conforto di vedere qualcosa di finto (che rimanda comunque a qualcosa di reale)  e proiettato sullo schermo (che dunque non proviene da noi) può rappresentare un elemento importante che giustifica l’esigenza di avere attori? Insomma, non è possibile che il cinema risponda all’esigenza che qualcuno faccia un’esperienza per noi (uccidere, amare, e così via)?

Senatore: La grandezza del cinema risiede proprio nel fatto che lo spettatore in sala, nel corso della visione di un film, può mettere in moto una serie di identificazioni proiettive, vestendo così, “inconsciamente” i panni di un serial-killer, di un prete o di una pornostar. L’identificazione con i diversi attori scatta grazie a dei terreni d’incontro e a delle risonanze interne che si attivano, nel corso della visione del film. Ci si identifica, insomma, non con un solo personaggio del film (quello “buono”) ma anche con il  “cattivo” di turno, con il perdente, con l’eroe invincibile, con la vittima e con il carnefice. Ma questo patto “finzionale” regge perché lo spettatore sa che, al termine del film, ritornerà ad essere un onesto padre di famiglia, un’operosa impiegata ed un tranquillo benzinaio.

Montinari: Cosa manca al cinema rispetto alle altri arti? E’ la sua natura spettacolare a non renderlo un vero e proprio oggetto di studio? In precedenza hai fatto l’esempio di casi in cui l’arte ha stimolato la ricerca psicoanalitica. Come mai questo non avviene con il cinema?

Senatore: Il cinema è un’arte “sinestesica” e credo che non abbia da inviare niente a nessuna altra forma creativa. Lo scarso numero degli scritti di psicoanalisti e psichiatri sul cinema, credo sia legato a delle precise ragioni storiche. All’inizio del Novecento il cinema veniva considerato un arte “volgare”, popolare, simile ad un fenomeno di baraccone. La borghesia, la sera, andava all’opera o a vedere i classici del teatro, non certo per imbucarsi in un cinema.  Freud e gli altri pionieri della psicoanalisi (Adler, Rank, Tausk…) conoscevano poco il cinema e/o non lo amavano. Il cotè psicoanalitico (per definizione da sempre un po’ elitario ed esclusivista) ha, nel tempo, considerato più colto e più “chic” dirigere la propria attenzione a forme artistiche quali la pittura ed il teatro. Non è un caso (solo per citarne alcuni) che Karl Abraham ha scritto su un articolo su Segantini, Groddeck sul Peer Gynt di Ibsen, Marie Bonaparte su Edgar Allan Poe, Erich Fromm su Kafka; Melanie Klein sull’Orerstiade, Carl Gustav Jung  sull’Ulysse e Picasso e Martha Wolfenstein su Magritte. Ricordo ancora oggi, quando nei convegni scientifici, utilizzavo come pre-testo un film e la reazione dei colleghi che, per reazione, storcevano il naso. Dopo infinite battaglie, il clima adesso è mutato e si può dire che non c’è convegno “scientifico” che non ospita un intervento sui rapporti tra cinema e psiche. Generalmente, però, i “tecnici della mente” approcciano il cinema in una maniera particolare e parcellare. La gran parte degli psicoanalisti è attratta per lo più solo dalla sceneggiatura e dai dialoghi tra i protagonisti. E’ raro che qualcuno di loro discetti sull’uso della fotografia, sui movimenti di macchina, sul perché di quella citazione d’autore. Il film è per loro fondamentalmente un testo letterario. Generalmente privilegiano l’analisi dei rapporti tra madre e figlio e/o trasformano qualsiasi storia ad una metafora della relazione transferale tra paziente ed analista. Un'altra variante che utilizzano è l’approccio patografico. Freud fu il primo che ipotizzò in un suo scritto (“Un ricordo di Leonardo da Vinci”) che la vita di un artista potesse essere riletta, a partire da una sua creazione. suo prodotto creativo. Un esempio più recente la rilettura di Cesare Musatti sul film “Salò e le 120 giornate di Sodomia” di Pier Paolo Pasolini.  Ancora più “selvaggio” è l’uso che alcuni psichiatri fanno del materiale filmico. La maggior parte di essi utilizza le pellicole principalmente per scopi didattici e per scoprire se quell’attore ha interpretato (più o meno bene) il ruolo del paziente folle, depresso o maniacale. Infine, l’ultima “raccapricciante” modalità con la quale viene utilizzato il cinema dagli psichiatri ed analisti è per sottolineare come il cinema mal-tratta sullo schermo gli strizzacervelli.

Montinari: Simulare esperienze può essere un oggetto di studio? Insomma, come accade in certi casi nel rapporto tra fantascienza  e scienza, è possibile pensare a un film e al modo di indagare di certi attori come a una sorta di “esperimento”?

Senatore: Non so se sia preciso o meno di parlare di “sperimentazione” per un attore. Se con questo termine si intende l’incontro con il nuovo, allora (generalizzando) potremmo dire che tutti “sperimentiamo” ogni giorno qualcosa.

Montinari: Il modo dell’attore di avvicinarsi al personaggio ha dei punti in comune con l’analisi? In un certo senso, sembra che alcuni attori trovino nel loro personaggio il modo consapevole per esprimere se stessi e le loro nevrosi (penso a Moretti, Allen); altri attori invece sembra che entrino nel personaggio solo dopo averlo analizzato (Hofmann, Bardem). Insomma nel recitare si dà una ricerca introspettiva? E se avviene che giudizio ne dai?

Senatore: Ritengo che sullo schermo l’attore mostri soprattutto quello che è nella vita reale. Se conosci da vicino questi registi ed attori, scopri che il più delle volte, i personaggi che interpretano sono identici a loro. Molti di essi sono pieni di tic, di ossessioni e/o soffrono di fobie e di attacchi di panico e quando accade che interpretano un personaggio che aderisce perfettamente alle loro patologie, ecco che si grida al miracolo. In realtà, questi attori non stanno recitando ma solo mostrando se stessi.

Montinari: Si può parlare di personalità multipla quando si fa riferimento all'attore e al suo essere camaleontico? 

Senatore: Non credo che gli attori, quando interpretano una parte, sperimentino una perdita del Sé o dimentichino la loro identità. Se così non fosse, basterebbe ad un attore interpretare solo per una volta il ruolo di Zorro per poi continuare, nella vita reale, a credere di essere diventato lo spadaccino mascherato. Penso che si sia fantasticato molto sugli aspetti scissi delle personalità degli attori, sullo scavo psicologico che essi devono compiere ogni qual volta interpretano un ruolo, sui rigidi esercizi che devono eseguire in stile Actor’studios. Credo che queste “storie”, siano state un po’ montate dai media e dagli stessi operatori del settore. Ogni qual volta si parla degli attori (come per noi psichiatri) si tende sempre a generalizzare e ad affermare che dietro questa loro scelta si celi il desiderio inconscio di “curarsi” e di prendere a prestito l’identità dell’altro. L’ultimo film di Piccioni “La vita che vorrei” può offrirci, però, un interessante spunto di riflessione. Stefano (Luigi Lo Cascio) è un attore “disperso” che non riesce ad entrare in contatto con le proprie emozioni. Non avendo un senso di identità molto saldo, Stefano “indifferentemente” può vestire i panni di un personaggio o di un altro, senza provare dentro di sé, nessun turbamento ed oscillazione. Piuttosto che di personalità multipla si potrebbe parlare, nel caso di Stefano (e degli attori in genere) di “personalità come se”, termine coniato dalla psicoanalista Helene Deutsch nel 1934. I soggetti che hanno strutturato questo tipo di personalità sono dei camaleonti che si conformano al tipo di relazioni oggettuali che instaurano. Se si innamorano di un intellettuale, leggono libri e frequentano mostre e musei; se sono le amanti di uno sportivo fanno jogging e vanno in palestra. In altre parole, questi soggetti strutturano la loro identità, rispecchiandosi patologicamente nell’altro e prendendo a prestito da questi un’identità che non li appartiene. Un piccolo aneddoto, infine, ci può essere, d’aiuto. Si racconta che una volta Gary Cooper ancora ragazzo guardasse fisso davanti a sé in silenzio. La mamma gli domandò: “Che pensi ?" Rispose: “Non penso assolutamente a nulla.” E la mamma: “Allora sarai un buon attore.”

Montinari: In questo periodo storico (ma forse è sempre stato così) a ognuno di noi si chiede di appartenere a qualcosa, che si tratti di una fede religiosa, di un'idea politica o di una mera collocazione geografica. L'attore per parte sua si mette sempre nei panni di un altro: vuole essere un altro. E' corretta questa affermazione? E cosa significa voler essere un altro?
Senatore: Non credo che l’attore voglia essere un altro. Lui sa che il suo compito deve “limitarsi” ad  interpretare un altro. Del resto nessun attore desidera essere scambiato per il personaggio che interpreta. Quando questo è accaduto le conseguenze sono sempre state disastrose. La povera Rita Hayworth ne sapeva qualcosa quando affermava: “Si addormentano con Gilda, ma il mattino dopo si svegliano con Rita”. Quando si interpreta un personaggio, da un lato si attua un'identificazione, dall'altro si interpreta, appunto, ossia si comprende l'altro perciò prendendone le distanze. E' una situazione che potremmo definire dialettica. E' lecito dire che si mette in moto un processo di autocoscienza? La prova d'attore è in un certo senso una terapia? Prendere a prestito una storia (una vita?) che non ti appartiene è (forse) un tentativo di autocura. L’attore si arricchisce inevitabilmente e non può non fare i conti con il personaggio che impersona. Ma non dimentichiamo che, al cinema, gli attori interpretano anche la parte dei cattivi, dei mostri, di quelli che verranno uccisi e che andranno al patibolo o in galera.  Lo spettatore va al cinema e sa che quello che vede sullo schermo è pura finzione e che alla fine della proiezione la vita scorrerà come prima. Perché questo non dovrebbe accadere (anche) nella mente dell’attore? Non dimentichiamo che molti di essi girano (spesso) ad un ritmo frenetico, un film dopo l’altro e non hanno (molte volte) neanche il tempo per essere risucchiati “dentro” il loro personaggio. Credo che, dietro tutto questo favoleggiare sulle parti scisse dell’attore, si celino alcune motivazioni inconsce dello spettatore. Innanzitutto, i dubbi sulla fragilità mentale dell’attore scattano (in genere) dopo aver assistito ad una prova attoriale straordinaria. E solo allora si mettono in moto alcuni meccanismi: da un lato un desiderio (materno) di proteggere e di preservare l’eroe (se recita un'altra parte può danneggiarsi); dall’altro quello di punirlo perché ci sta “tradendo” (svestirà i panni di Tizio per interpretare quelli di Caio). Non è (forse) vero che lo spettatore, dopo essere stato rapito dalla recitazione di un attore desideri (egoisticamente) che questi resti “imbalsamato” per tutta la vita, in quel fermo immagine che ti ha stregato e che non dimenticherai mai?

Montinari: C’è un film o più d’uno nei quali hai trovato un attore capace con la sua prova di esibire la complessità della psiche umana, o pensi che in ogni forma di recitazione vi sia una riduzione che impedisce di cogliere autentici elementi di realtà?

Senatore: Il primo nome che mi viene in mente è Kim Rossi Stuart quando ha interpretato il giovane psicotico di “Senza pelle” di D’Alatri. Credo che nessuno come lui si sia riuscito a calare nei panni di uno schizofrenico. La sua recitazione non era di stampo americano e quindi non era eccessiva ma tendente sopratutto al sottrarre. La sua identificazione al personaggio fu quasi totale, al punto che mi confessò di aver scritto lui stesso le lettere che nella finzione scenica spediva ad Anna Galiena (la donna di cui si era innamorata). Ma l’elenco (forse) di quegli attori che ti hanno rapito per al loro straordinaria recitazione potrebbe essere interminabile. …

 

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