DIVA
Non puoi fare a meno di
considerarti un imbroglione. Non sei in grado di vivere all’altezza dei
personaggi che sono stati scritti per te.” (Paul Newman)
)Nel cinema western, si dice, il protagonista è il paesaggio. Basti pensare ai film di John Ford , di Leone. E che dire del cinema di Wenders , di Herzog…. Tranne alcune eccezioni non possiamo che affermare che tutto il cinema è antropomorfico e che ruota intorno agli attori e alle attrici, meglio ancora se esse sono definite star. Come è noto il termine “diva” discende da quello usato per gli imperatori romani. I critici ritengono che fu utilizzato per la prima volta, ai tempi del cinema muto e coniato per Eleonora Duse e Sarah Bernhardt.Scopo di questa mia relazione è declinare il tema propostomi, partendo dall’acronimo (immaginario) della parola diva. Ma prima desidero fare un passo indietro
1)
Per un approccio patografico
delle star
Se scaviamo nelle vite di
queste eroine dello schermo, scopriamo che la gran parte di esse hanno avuto una
storia familiare fallimentare alle loro spalle. Joan Crawford: Il padre sparì
quando era piccola, due patrigni ed una madre costretta a lavorare duro per
tirare avanti; Barbara Stanwick: rimasta orfana dei genitori quando era bambina
viene allevata dalla sorella maggiore e da alcuni parenti; Lana Turner: I suoi
genitori si divisero prima che andasse a scuola. Il padre, minatore e giocatore
d’azzardo fu assassinato quando lei aveva 10 anni; Bette Davis :I genitori
divorziarono quando lei aveva 7 anni; Marilyn Monroe: Figlia illegittima,
abbandonata dalla madre in tenera età, sballottolata tra decine di famiglie
adottive e per non parlare delle storie travagliate di Lillian Gish, Mary
Pickford, Ginger Rogers,Olivia de Havilland, Jean Fontane, Jean Harlow….Ma
queste sciagure sembrano essere appannaggio anche di quella dei giorni nostri.
Jodie Foster: la madre abbandona il marito incinta di 4 mesi di Jodie; Julia
Roberts: Il padre muore di cancro alla gola quando lei aveva 10 anni; Meg
Ryan: la madre abbandona il marito quando lei aveva 15 anni. Ma tale sorte
non era solo d’appannaggio del genere femminile: Cary Grant: suo padre,
operaio morì alcolista e sua madre divenne pazza; James Dean: la
madre muore quando lui ha 9 anni ed avrà un rapporto conflittuale con il padre;
Robert Mitchum: suo padre morì in un incidente di lavoro quando lui aveva
2 anni; Steve Mc Queen: non conobbe mai il padre che lo abbandonò quando
aveva 6 mesi; Nicolas Cage: sua madre é ricoverata in manicomio quando lui
aveva 6 anni. A 12 anni i genitori divorziano; Johhny Depp: Minore di 4
figli. La madre si è risposata ed aveva già altri 2 figli dal precedente
matrimonio.Per rimanere ai lidi nostrani….Sophia Loren: la madre rimase incinta
da un uomo che non solo non la volle sposare ma dopo 4 anni le diede una seconda
figlia e si sposò con un'altra donna due anni dopo. La stessa Sophia, in
un’intervista affermò:
“Ho sempre invidiato al
mondo una sola categoria di persone: coloro che possono incominciare la loro
biografia pressapoco con queste parole: Mio padre e mia madre si sposarono la
mattina del giorno tale, nella chiesa tale. Papà indossava quel giorno l’abito
scuro e mia madre con l’abito bianco con il velo, quello di tutte le spose. Io
nacqui da quel felice e benedetto amore esattamente nove mesi dopo.”
2)
Le caratteristiche archetipiche delle dive:
Come ci ricorda Jacqueline
Macache, il cinema classico hollywoodiano aveva intuito questo bisogno primario
dello spettatore al punto da mutuare dei codici narrativi che esaltavano la
presenza stessa della diva. Si doveva creare nello spettatore l’aspettativa; la
sua entrata in scena deve essere studiata; la star doveva essere immediatamente
riconoscibile; l’inquadratura deve privilegiare i primi o i primissimi piani...
L’industria holliwoodiana aveva intuito che gli spettatori correvano al cinema
se la diva metteva in moto il desiderio dello spettatore. “Occorrono dieci
anni per fare una star” amava dire Mr Mayer che sosteneva “la regola
dell’illusione secondo la quale i grandi attori dovevano presentarsi al pubblico
come creature affascinanti, indossare begli abiti, bere champagne.” Ma per
essere “diva”, occorreva che la star, su tutto, mettesse in moto nello
spettatore queste quattro emozioni.
a) Desiderio: termine che
etimologicamente deriva da “de-sottrattivo e “siderus” – stella. Comunemente
questo temine rimanda a “fissare attentamente le stelle” o “volgere lo sguardo
verso cosa non si possiede”, sentire la mancanza”. Sottratta al flusso della
vita concreta e consegnata alla sacralità doveva vivere in un'altra dimensione
(celeste, da cui i nomi di “stella” e di “star”) diversa dai comuni mortali,
affascinante, bellissima, inaccessibile, irraggiungibile, non può apparire
ordinaria, deve cambiarsi continuamente d’abito quando è in scena. Fino alla
Seconda Guerra mondiale non poteva apparire incinta, con i figlioletti in
braccio o a spasso con un uomo comune. Ma se le dive un tempo erano visibili con
parsimonia e solo al cinema, oggi con l’avvento della televisione la diva entra
a casa nostra.
“La tua bellezza amara: che
si offre, incombente come una teofania, uno splendore di perla. Mentre in
realtà, tu sei lontana.”
(Lettera aperta di Pier
Paolo Pasolini a Silvana Mangano). Più caustico Edgar Morin che affermava che la
funzione del divo è quella di incarnare, riprodurre ed amplificare valori
circolanti una struttura sociale”.
“La diva è una merce totale:
non c’è centimetro del suo corpo, fibra della sua anima, ricordo della sua vita
che non possa essere gettato sul mercato (…) Del resto, le banche di Wall Street
avevano un ufficio specializzato in cui venivano quotidianamente quotate le
gambe di Betty Grable, il seno di Jane Russel, la voce di Bing Crosby, i piedi
di Fred Astaire. La star è dunque nello stesso tempo merce di serie, oggetto di
lusso e capitale fonte di valore.
b) Identificazione
Lo spettatore in sala devi
identificarsi con il suo eroe dello schermo. “Io sono una di quelle che
quando escono da un film di cowboy camminano dal cinema all’autobus con le gambe
un po’ storte e le mani altezza pistola, fissando i pali gialli dei semafori per
vedere dove ho messo il cavallo. Credo che tutti lo facciano. Se no, per lo
meno, non si capisce perché vadano a chiudersi due ore in un dannato cinema.
Intendo dire, se poi esci di lì e la tua vita ti sembra più banale che mai….”
Questo breve passo tratto da “Porci con le ali” di Lidia Ravera e Marco Lombardo
Radice ci illustrano sapientemente quale può essere la reazione emotiva di uno
spettatore al termine della visione di un film ma fu Roland Barthes che meglio
di chiunque altro seppe descrive quel senso di smarrimento e di deriva che
colpisce lo spettatore all’uscita di una sala cinematografica. A sottolineare
l’enorme potenziale che ha il cinema sugli spettatori riporto questo gustoso
aneddoto. Quando nel 1977 Sofia Loren fu derubata della sua valigetta di
gioielli del valore di 2 miliardi, una casalinga, per ripagarla del dolore le
offrì un anellino ed una crocetta.Quest’ultimo esempio ci lascia intendere
l’acuta osservazione di Massimo Mila che affermò: “Diva: surrogato di una vita
sognata e non vissuta”. A sostegno della sua tesi si potrebbero citare
numerosi esempi che ci confermano come lo spettatore in sala, pur di lasciarsi
cullare dalla propria immaginazione tralascia gli aspetti della realtà.
Al pubblico in sala non importa che la canzone che Rita Hayworth cantava in
Gilda “Put the blame on mame” fosse doppiata da Anita Ellis o che Fern Barry era
la controfigura di alcune parti del corpo (gambe e braccia) di certe dive (Ida
Lupino, Bette Davis, Ann Sheridan…). Un meccanismo sovrapponibile
all’identificazione è l’imitazione. Lo spettatore per identificarsi con il
proprio beniamino è spinto ad imitarlo e modificando il proprio aspetto fisico
(la parte per il tutto) è convinto di divenire irresistibile se si fa crescere i
baffi di Clark Gable, il ciuffo alla Elvis Presley, il taglio dei capelli alla
Veronica Lake, se si veste come Audrey Hepburn o se indossa un baby doll come
Carrol Baker.
c) Voyeurismo
Ma non c’è solo il desiderio
dello spettatore; anche la diva gode del desiderio di mostrarsi in pubblico e
mette in mostra un corpo, oggetto di desiderio.
Per Lara Mulvey il massimo
di seduzione e di fascino viene raggiunto quando uno sguardo maschile si
posa su un corpo di donna.
“L’uomo guarda, la donna è
guardata. L’uomo agisce gli eventi, la donna è una presenza passiva, un elemento
della decorazione, una semplice icona; l’uno muove la dieresi, l’altra ne è
fuori. Questa doppia situazione fa sì che lo spettatore scelga come oggetto
d’identificazione l’eroe, e come oggetto di godimento l’eroina: è l’uomo, colui
che guarda e agisce, a fungere da alter ego; è la donna, colei che si mostra e
resta passiva, a fungere da eccitante e da preda.”
d) Amore/Seduzione
Sedurre: etimologicamente
vuol dire “portar via”, “condurre in disparte” e ciò rimanda ad una confidenza
segreta. Per Freud:
“Questo primo oggetto (il
seno) si completa in seguito fino a comprendere la persona della madre, ma pure
lo accudisce, suscitando in lui una serie di altre sensazioni corporee, ora
piacevoli, ora spiacevoli. Occupandosi del corpo del bambino, la madre diventa
la sua prima seduttrice (…) .Trovare un oggetto d’amore significa ritrovarlo, ma
significa anche scoprirlo, quasi inventarlo.
Queste riflessioni ci
ricordano come sia fondamentale per lo sviluppo infantile la funzione di
specchio della madre. Winnicot, a riguardo, afferma: "Nello sviluppo emozionale
del bambino il precursore dello specchio è la faccia della madre." Queste
riflessioni di questi eminenti psicoanalisti ci ricordano come nel corso della
fruizione della pellicola vengono riattivati quelle funzioni infantili dello
sguardo. Del resto il cinema non è (forse) che una sapiente schermaglia di
sguardi, ed un darsi con gli occhi.”
Stralcio della Relazione al Convegno: Le dive del cinema italiano” – Napoli - 24-4-2004