Intervista a Saverio Costanzo

 

Saverio Costanzo, giovane regista, autore dell’osannato “Private”, è l’ospite del terzo appuntamento della Rassegna tematica “Sguardo sul Novecento- Guerra e pace”, organizzata dall’Associazione “Moby Dick - Progetto Scuola”, curata da Rita Esposito e da Assia Calabrese.

Saverio, figlio di papà Maurizio, è un ragazzo riservato, taciturno ed introverso. Il suo straordinario film d’esordio, ha fatto incetta di premi in tutto il mondo e, cosa più unica che rara, ha messo d’accordo, critica e pubblico.

Possiamo dire che il tema della libertà è quello che attraversa tutto il tuo film?

 

“Assolutamente si. Non a caso, nel mio film non ci sono i cattivi da un lato ed i buoni dall’altro e non c’è nessun specifico sbilanciamento da una parte o dall’altra. Questo spiega perché, durante la proiezione del film, è capitato spesso che ebrei e palestinesi hanno iniziato a litigare. Io non volevo accontentare nessuno. Il mio film non vuole essere ideologico e non è a-politico, anche perché tutto è politico. Volevo mostrare come di fronte all’orrore della guerra ci potesse essere una terza strada, una via d’uscita che è quella che propone il capofamiglia palestinese, un uomo di certo non comune, un intellettuale illuminato che legge Shakespeare.”

 

Perché in “Private” non ci sono scontri tra palestinesi ed israeliani?

 

“Non ho voluto mostrare agli spettatori immagini che hanno visto migliaia di volte alla televisione o in uno dei tanti documentari girati sul conflitto Medio Orientale. Volevo fare un film su uno stato emotivo e sulla sofferenza di milioni di uomini, siano essi palestinesi o israeliani. Il film dura solo un’ora e mezza e mostra solo l’inizio di questa drammatica vicenda, ma la verità è che questa storia va avanti da quattordici anni, con la famiglia palestinese che occupa il primo piano ed i soldati israeliani ancora accampati al secondo. Ma quello che mi premeva mostrare maggiormente era quella sorta di “tensione” invisibile che attanaglia queste popolazioni. Quando sono stato in quei territori quello che mi ha fortemente colpito è che, pur sapendo di trovarti nel bel mezzo di una guerra, non senti elicotteri che ronzano in cielo, né vedi eserciti che si danno apertamente battaglia. In questa situazione irreale, tutto può esplodere da un momento all’altro. Nella striscia di Gaza, ad esempio, di giorno la vita scorre normalmente, ma di notte, quando i soldati israeliani iniziano ad occupare la zona, non vedi, per strada, un’anima viva. La verità è che la realtà è molto più forte della finzione e per questo motivo, il mio film non poteva avere un lieto fine ma doveva ricordare che la risoluzione di questo conflitto è ancora ben lontana.”

Il taglio documentaristico che hai dato al film è stata una tua scelta stilistica?

 

“Nasco come documentarista e non conoscevo bene né il linguaggio cinematografico, né la sua grammatica. Ho cercato di raccontare una storia attraverso uno stile più caldo ma la mia “impreparazione” cinematografica ha creato non pochi problemi in fase di montaggio e nella post-produzione. A dispetto del documentario, dove tendi, automaticamente, a sottrarre e dove non devi giustificare certe angolature, la scelta di girare un vero e proprio film era legata alla consapevolezza che il cinema ti offre maggiore libertà e che mi avrebbe offerto lo spazio per un racconto, dove in primo piano, dovevano emergere le emozioni dei protagonisti.”

 

Cosa ti ha mosso nella scelta degli attori?

 

“Ho preferito non barare e la scelta di attori israeliani e palestinesi non è stata casuale. I bambini, invece, sono della Comunità Palestinese di Napoli.....

 

Per l'intervista completa si rimanda al volume "Psycho cult" di Ignazio Senatore (Centro Scientifico Editore-2006)

 

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