Cosimo e Nicole
Cosimo e Nicole si incontrano, per caso, al G8 di Genova. Irregolari, vagabondi, cani sciolti senza collare, si piacciono, si amano e, prima di fare di nuovo tappa a Genova, decidono di fare un salto da Jean, il padre di Nicole, uno spiantato senza il becco di un quattrino. I due, senza perdersi d’animo, dopo aver improvvisato per strada la vendita di qualche oggetto che avevano al volo racimolato, partono per un viaggio che serberà per loro non poche sorprese e che cambierà per sempre la loro vita.
C’è chi, citando la filmografia di Welles, Bellocchio, Samperi, Agosti, Soldini (e di tanti altri ancora) si ostina a dichiarare che il film d’esordio è sempre l’opera migliore di un regista. Niente di più falso. Ne è la riprova questo intenso e poetico Cosimo e Nicole, opera seconda di Francesco Amato, giovane regista torinese, autore dell’opera prima Ma che ci faccio qui, film giovanilista impalpabile e sbilenco che, di certo, non lascerà alcun segno nella storia del cinema italiano.
In questa pellicola, (premiata quest’anno al Festival di Roma nella Sezione “Prospettive Italiane”) Amato filma con durezza la polizia che, senza pietà, manganella e spranga i giovani partecipanti al G8 e mette in scena con (troppo?) ardore la passione amorosa che travolge i due protagonisti.
La vicenda sembra dipanarsi da un filo fin troppo esile e sottile (due giovani felici e sorridenti che si innamorano a prima vista) ma poi vira di colpo, costeggiando i temi caldi dell’integrazione razziale e della solidarietà, fino a trasformarsi in un vero e proprio atto d’accusa contro le impietose e disumane leggi del potere costituito.
Macchina a mano, Amato ci mostra, in apertura, l’incontro burrascoso tra la fresca e solare Nicole, una ragazza francese e Cosimo, un italiano che, durante i tafferugli del G8, l’aveva soccorsa sanguinante a terra. Cupido schiocca le sue frecce e Cosimo e Nicole sono tolti dagli impicci da Paolo, un fonico ed organizzatore di concerti rock che offre ad entrambi la possibilità di lavorare per lui. Come ogni favola che si rispetti, il destino è però dietro l’angolo. Alioune, un immigrato clandestino della Guinea, cade da un’impalcatura mentre sta montando il palco al fianco di Cosimo. Tutti lo credono morto e Paolo, per evitare rogne, con la complicità dei due ragazzi, invece di portarlo in ospedale, lo abbandona in una baraccopoli di periferia, dimessa ed isolata. Giorno dopo giorno, Nicole è macerata dai sensi di colpa e, sempre più nervosa, irritabile e scontrosa accusa Cosimo di essere cinico ed insensibile. Lui l’ama, comprende la sua disperazione ma, concreto e realista, prova, invano, a convincerla che così va il mondo e che non è possibile cambiare le regole del gioco. Cocciuta e testarda, Nicole darà ascolto alla propria coscienza e, decisa, andrà alla ricerca di Alioune. E sarà proprio questo il punto di snodo della trama che condurrà lo spettatore in un viaggio pieno di speranza e di inattese sorprese.
In questo road movie atipico, che procede senza intoppi con un ritmo agile e sincopato, Amato è bravo nel declinare un tema (le morti bianche, gli operai sfruttati e diseredati che cadono da un’impalcatura) mostrato già altre volte sul grande schermo. E se ne La promessa dei Dardenne era un bambino che succube del padre-padrone, finiva poi per denunciarlo e nel film di Calopresti (La felicità non costa niente), il protagonista (un architetto) trovava pace solo dopo aver fatto i conti con il fantasma dell’operaio morto sul cantiere, in questo film Amato lascia che sia una ragazzina, esplosiva e vitale, come Nicole ad urlare, scalpitare ed a condurre, da sola, una battaglia per il trionfo della giustizia, della gratitudine e della dignità umana.
In questo film Amato sfata un altro cliché ed, a dispetto di quanto dichiara Godard, nel suo recente Introduzione alla vera storia del cinema (“Di solito quelli che sono ai primi film, mettono raramente dei primi piani, si sbagliano sempre”) filma ossessivamente il volto della protagonista, fino a scavarlo, perlustrarlo, violarlo. Ed è proprio in quell’indugiare sul primo piano della protagonista, mentre confida alla mdp le sue acute e mai banali e stucchevoli riflessioni sulla vita, il vero punto di forza del film.
Una pellicola onesta e sincera che non mette in campo, i classici innamorati fatti l’uno per l’altro, che al loro passaggio sbocciano fiori, ma che pecca per l’imperdonabile scelta del regista di trasformare la pellicola in un brutto, esangue ed asfittico videoclip ogni qual volta mostra l’esibizione, in diretta, sul palco del (meglio?) del rock italiano “militante”: Marlene Kuntz, Afterhours, Verdena e altri. Il finale liberatorio, con la danza esplosiva di Nicole, rende (giustamente) omaggio alla gioia di vivere che travolge la giovane protagonista. Scamarcio rende credibile il suo personaggio anche quando si rivolge in francese ad Alioune ed agli altri extracomunitari e la bellissima Clara Ponsot é una creatura così selvatica e pulsante che ti innamori di lei non appena compare sulla scena. Paolo Sassanelli, fin troppo sottovalutato dal cinema nostrano, è sempre più convincente.
Recensione pubblicata su Segno Cinema - N. 179 Gennaio - Febbraio 2013