Lettere a mia figlia
di
Concetta
Coccia
Ci sono
lettere e lettere. Chi non ricorda quella che Antonio Caponi detta a suo
fratello nell’indimenticabile “Totò, Peppino e la malafemmina”? C’erano, poi,
quelle di color scarlatto che nel diciottesimo secolo venivano appuntate sul
petto alle donne ritenute fedifraghe o, per rimanere
nei lidi nostrani, quelle affrante e disperate di Jacopo Ortis di foscoliana
memoria. Scrivere una lettera è, da sempre, una delle forme più intimistiche e
raccolte che una persona ha a disposizione per regalare al suo destinatario
emozioni, affanni, ricordi. Ristoro e rifugio per chi scrive, dono per
chi lo riceve, la lettera è da sempre un genere letterario amato da scrittori e
poeti. Concetta Coccia nel suo “Lettere a mia
figlia”
(Graus Editore,
collana
Specchi di Narciso, € 10,00, pp. 148) ha scelto
di impaginare un romanzo dove l’asse portante della storia è composto proprio
dalle lettere che una madre invia alla propria figlia Daniela, sposata e
trasferitasi a Roma.
L’autrice stessa spiega così le ragioni della sua scelta letteraria:
“In un
epoca di messaggini telefonici, dove non si ha il più il tempo per fermarsi,
scrivere una lettera significa sostare e dedicare del tempo ad una persona. Il
messaggio viene cancellato, la lettera viene pensata e chi la riceve ha la
possibilità di custodirla e rileggerla quando vuole”.
Parafrasando Erich Rohmer la missione della letteratura è più quella di dirigere
i nostri occhi verso gli aspetti del mondo per i quali ancora non avevamo ancora
avuto sguardi. Coccia prova a portarci in un’altrove dove passato e presente si
rincorrono e dove l’affetto di Tiziana, una madre, fin troppo premurosa ed
assillante, si trasforma, alla fine della storia nella matura consapevolezza
che, per poter permettere alla figlia di crescere, non le rimane che mettersi da
parte.
Articolo pubblicato su
"Il Napoli - Epolis"- 27-02-2007