Eroi di periferia
“La sfera di vita della
città di provincia si conclude sostanzialmente in essa e con essa. Per la
metropoli, invece, è decisivo il fatto che la sua vita interiore si espande in
onde concentriche su di un’ampia area nazionale o internazionale.”
Questa affermazione di Georg Rimmel ci descrive la netta differenza esistente
nell’immaginario collettivo tra il centro urbano e la periferia.
Il cinema ha sempre riletto
il centro urbano come “città della luce” (lumiere, in francese, come gli
inventori del cinematografo) come luogo del sogno e dell’immaginario. Tutti
ricorderanno pellicole come Aurora di Murnau (1927) e L’atalante
di Jean Vigo (1934) che narrano dell’ebbrezza dei protagonisti che si muovono
dalla piccola periferia per scoprire il lusso ed il luccichio della grande
città.
Il cinema è fondamentalmente
un industria commerciale ed i produttori, per permettere allo spettatore in sala
di poter immergersi nel mondo dorato della fantasia preferivano che le storie
(basti pensare al cinema del ventennio fascista soprannominato dei “telefoni
bianchi”, ad alcune pellicole di Greta Garbo, ai musical americani di Fred
Astaire e Ginger Rogers) fossero ambientate negli appartamenti lussuosi delle
grandi città o nelle suite imperiali dei grandi alberghi. I protagonisti erano
spesso dei nobili (spiantati), dei professionisti o delle persone altolocate che
pasteggiavano a caviale e a champagne.
Con il cinema non ha
raffigurato solo il grande centro urbano ma anche la periferia, con i suoi
paesaggi disadorni ed abbandonati, descrivendola come uno spazio abitato da
un’umanità sconfitta e priva di storia. A partire dalla stagione del Neorealismo
italiano, registi e sceneggiatori, ci hanno proposto un loro personale sguardo
su queste degradate realtà.
Come affermava Pier Paolo
Pasolini: "I miei eroi sono sempre dei "perdenti", perché sono sconfitti in
anticipo, cosa che costituisce uno degli ingredienti principali della tragedia.
Da molto tempo si sono messi d'accordo con la morte e la disfatta, per cui non
gli resta nulla da perdere. Essi non hanno più apparenze, né illusioni da
salvare, e così rappresentano l'avventura disinteressata, quella da cui non si
trae alcun profitto al di là della semplice soddisfazione d'essere ancora vivi.”
Per questi autori occuparsi
di periferie, di adolescenza marginale non era solo una scelta tematica ma anche
e soprattutto una scelta visiva. In questi ultimi decenni il nuovo cinema
indipendente italiano ha dato voce ad un’umanità rimossa, dimenticata, priva di
voce e di rappresentazione.
Registi e sceneggiatori con
pellicole a basso costo, scegliendo una narrazione scarna, disadorna e senza
fronzoli, hanno descritto, con uno sguardo antropologico lucido ma non
distaccato, la sofferenza di chi è costretto a vivere in quartieri dormitori,
grigi e disadorni. I protagonisti di queste pellicole sono generalmente degli
adolescenti che lavorano sottopagati in anonime fabrichette o che vivacchiano
alla giornata spacciando piccole quantità di droga o compiendo dei furti.
Attanagliati da un enorme senso di frustrazione e di solitudine, incapaci di
riscattarsi da una vita che non hanno scelto, questi ragazzi non possono fare
altro che mettere in atto di comportamenti autodistruttivi e delinquenziali ed
affrontare, con disincanto e rassegnazione, la tragicità del quotidiano con il
ghigno cinico, sarcastico e provocatorio di chi, a testa alta,va incontro al
destino. Quasi tutte queste pellicole sono attraversate da un senso di cupa
sconfitta e di desolazione e se nel Neorealismo c’era ancora un pizzico di
speranza per un futuro migliore, in queste pellicole l’adolescente non prova
nemmeno a cambiare il proprio destino consapevole che la realtà non è possibile
mutarla.
E se in passato solo alcuni
registi Antonio Capuano (Vito e gli altri, Pianese Nunzio 14 anni a maggio…) e
Salvatore Piscicelli (Le occasioni di Rosa, Baby gang…) sembravano essere gli
unici a dar voce a questa silente umanità, in questi ultimi anni autori come
Domenico Gaglianone (“Nemmeno il destino “) Paolo Vari e Antonio Bocola (“Fame
chimica”), Francesco Munzi (Saimir) hanno saputo interpretrare il disagio di chi
vive, senza poter nutrire una minima speranza di cambiamento, in anonimi
quartieri dormitori. Periferie non solo come degrado urbano, dunque, ma come
cassa di risonanza di un disagio più diffuso e che attraversa l’intera società.
E come ci ricorda Mathieu Kassowitz non ci dobbiamo meravigliare se
queste periferie, abbandonate al proprio destino, si trasformano in un lampo
in un esplosiva polveriera.
“Io odio la gente che sta
ferma sulle scale mobili, lasciandosi trasportare. Io odio gli studenti che
manifestano e che se la prendono con i casseur. Io odio la demagogia associata
ai ghetti di periferia. Io odio la cicoria e la verdura mista (…) e
tuttavia…sono bianco, lavoro a Parigi. Non ho nessuna ragione per provare
dell’odio. Adesso provate ad immaginare quello che passa per la testa di un
ragazzo di un ghetto di periferia quando uno dei suoi amici viene ucciso con un
proiettile alla testa da un poliziotto.”
Articolo pubblicato su "La Voce della Campania" - Numero 5- Maggio 2006