"Cinema, psicoanalisi e (troppa) fantasia"

di

Paolo Conti

 

"Alla vista di tute queste "strane" rappresentazioni di terapisti che, disperati perchè in crisi con i rispettivi partner, cadono nelle braccia dei loro pazienti, mi sentivo come lo spettatore di Jorge Amado  che mentre assisteva alla rappresentazione di una pellicola americana sulla rivoluzione russa, dopo aver preso a pietrate lo schermo, si ribellava e cercava di convincere gli altri spettatori in sala che nella realtà le cose non erano andate in quel modo."

L'analista guarda il proprio doppio, stavolta non allo specchio ma sullo schermo cinematografico, storce la bocca scoprendo il ritratto di un vanesio psicolabile, di un professionista assai discutibile o semplicemente di un cretino presuntuoso: chissà mai perchè un'industria cinematografica che spedisce per mesi Robert De Niro nelle palestre pugilistiche prima di interpretare La Motta in "Toro scatenato" o il malato neurologico che torna alla vita dopo anni di letargo in "Risvegli" non adotta lo stesso rigore per la trasposizione cinematografica dei processi terapeutici?

Lo psichiatra e psicoterapeuta Ignazio Senatore deve amare la professione che esercita alla Clinica Psichiatrica dell'Università "Federico II" di Napoli quanto il cinema (infatti confessa la sua passione per Wim Wenders, Erich Rohmer e John Ford) se ha deciso di partorire questo dettagliatissimo "L'analista in celluloide" (Franco Angeli). Per di più, a suo personale avviso "la psicoterapia è un arte estetica, un'educazione all'abilità immaginativa". Da bravo socio della Società Italiana di Terapia Familiare non è, insomma, tipo da rimanere con le mani in mano davanti a certe parodie degli allievi di Freud, Jung o Lacan che i registi di mezzo mondo propinano alle platee.

Senatore ha sezionato quasi cento film in cui il lettino di nonno Sigmund o il transfert, una patologia dolorosa o grottesca diventano plot: si va da "Un angelo alla mia tavola" di Jane Campion a un "cult" come "Blade runner" di Ridley Scott, ma c'è anche "Il grande cocomero" di Francesca Archibugi o "La visione del Sabba" di Marco Bellocchio e, naturalmente "Rain man" di Barry Levinson e "Il silenzio degli innocenti" di  Jonathan Demme.

La conclusione finale è: "Non mi sono identificato in nessuno degli analisti in celluloide comparsi sullo schermo ma sono stato spinto inizialmente a prendere le distanze nette da loro."

Il perchè è presto detto. Questo sciamano moderno che ha il permesso e il potere di insinuarsi nell'esistenza altrui è un bocconcino narrativo troppo prelibato per rispettare l'ortodossia, se vogliamo grigia, realtà professionale quotidiana. Ed ecco perchè, in quasi tutte le trame, il "dottore", maschio o femmina che sia, è privo di una propria vita affettiva. E perchè certi impossibili psicoanalisti chiedono cortesemente ai pazienti, durante la seduta, se preferiscono il limone o il latte nel té (Il principe delle maree") o addirittura li lasciano pernottare in casa loro ("Strana la vita") come vecchi amici un po' depressi.

Per no parlare della psichiatria che viola qualsiasi segretezza professionale e fornisce al poliziotto i resoconti delle sedute del suo paziente ("Basic instinct"). L'analista sembra fatto apposta, documenta Senatore, per ingolosire sceneggiatori, risolvere storie stagnati o regalare colpi di scena da far invidia a Shakespeare, e chissà quanto si sarebbe divertito il Grande con l'universo del setting. Tanta approssimazione non è solo colpa dei cineasti, ammette Senatore.

Bisogna anche fare i conti con un immaginario collettivo che "guarda ai terapeuti come ai professionisti sempre in attività, ventiquattr'ore su ventiquattro, accecati dal furore interpretativo, pronti ad analizzare tutti gli individui che ci capitano a tiro, forzati della mente che coattivamente non depongono mai i ferri del mestiere".

Inevitabile che al cinema tutto questo si materializzi nello psicoterapeuta che, seduto al bar o mentre nuota in piscina, sforna ricettine e consigliewtti buoni per affrontare (subito e bene!) il logorio della vita moderna. Il libro di Senatore è insomma pervaso da una certa  auto-ironia, visto che a studiare l'argomento è un collega di "doppi" interpretati dagli attori. Da regalare al cinefilo ossessivo che non vede il mondo se non dalla poltrona della sala preferita. Magari, vai a sapere, finalmente entrerà in analisi.

Corriere sella Sera- 24.2.1995

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