Il caso “Venere privata” (Cran d'arrêt)

di Yves Boisset con Bruno Crémer, Renaud Verley, Mario Adorf, Raffaella Carrà, Marianne Comtell - Francia -. 1970 – Durata 90’ – V.M 14

 

Alberta (Raffaella Carrà) una ragazza sbandata e perennemente in bolletta, accetta per soldi, di posare per un fotografo (Mario Adorf) che, dopo averle chiesto di spogliarsi, le cinge il corpo con una catena e le scatta delle istantanee, brandendo sul suo volto la lama di un rasoio. Tesa e sconvolta per il servizio fotografico, Alberta s’imbatte in David (Renaud Verley) il rampollo di una ricca famiglia milanese che l’invita a fare un giro sulla propria spider. I due legano immediatamente ed Alberta, ancora spaventata per quanto precedentemente accadutole chiede a David di ospitala nella sua villa. Dopo averci scherzato un po’ su, lui la liquida credendola una pazza visionaria ed il giorno seguente è trovata morta in un prato. Sommerso dai sensi di colpa, David si tuffa nell’alcol e suo padre (Claudio Gora) per aiutarlo a disintossicarsi, contatta Duca Lamberti (Bruno Crémer) un dottore disinvolto e senza scrupoli che, grazie all’aiuto di Livia (Marianne Comtell), incastra il folle maniaco, responsabile della morte di Alberta.

Il regista mette in scena in maniera abbastanza piatta un romanzo di Giorgio Scerbanenco e lascia che la vicenda ruoti intorno alla figura di David, un ragazzo fragile, schivo e riservato che vive da solo in una villa fuori città, accudito dal fedele maggiordomo. Il regista non spiega come mai quel fortuito incontro con Alberta abbia segnato così profondamente la vita del ragazzo e soprattutto perché, dopo una notte di bagordi con una ragazza, David crolli nuovamente e tenti il suicidio tagliandosi le vene. Duca Lamberti, un medico radiato dall’albo, per aver aiutato a morire una ragazza in fase terminale, è una figura ambigua; non appena mette piedi nella villa prova a sfruttare, economicamente, la situazione e, dopo aver offerto da bere a David, lo conduce in discoteca dove rimorchia un paio di pupe.  Nel corso del film, il suo atteggiamento muta di colpo e, trasformatosi in detective, incastra il folle e perverso fotografo che, come Carl, il  protagonista de L’occhio che uccide, diretto nel 1960 da  Michael Powell, è ossessionato dall’idea di dover immortalare con degli scatti gli sguardi spaventati e colmi di paura delle sue vittime.

 

 

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