Querelle de Best
Quando ero bambino credevo
che i più forti giocatori del mondo avessero tutti un cognome composto da
quattro lettere. Pelè era la star incontrastata del momento e gli facevano
compagnia Didì, Vavà, Riva, Mora e qualche anno dopo Jair. Nel glorioso Napoli
di Sivori ed Altafini giocava ad ala destra il mitico Jarbas Fausthino detto
Canè. Nero come il carbone, veloce come una lepre, robusto come una quercia, con
il suo dribbling ubriacante, il suo scatto felino ed il suo grande senso tattico
creava lo scompiglio nell’area avversaria. Pungere, segnare, effettuare un cross
che tagli la difesa avversaria; è questo in dettaglio il difficile compito di un
ala. Garrincha, Hambrin, Jair,
Jairzinho, Domenghini, Franco Causio, Bruno Conti i campioni che hanno rivestito
questo ruolo, atleti talentuosi, per lo più agili ed asciutti, dei veri e propri
incubi per le difese avversarie Estro e fantasia sono sempre stati gli
ingredienti essenziali di una grande ala. Ne sapeva qualcosa Gigi Meroni, ala
destra della Nazionale e del Torino, il primo calciatore in assoluto a rompere
gli schemi desueti dell’atleta tutto muscoli e niente cervello. Con la sua lunga
chioma da hippy, Meroni di notte, girava per la città con una gallina al
guinzaglio e svestiti i panni della star, con i suoi comportamenti
anticonformistici viveva come un ragazzo qualsiasi, lontano dai bagliori dei
flash e dei riflettori. Triste destino il suo; un auto guidata da un signore che
decenni dopo diverrà presidente del Torino, lo falciò mentre attraversava la
strada e Gigi dovette dire addio alla vita ed alla sua folgorante carriera.
George Best, altra mitica ala destra di quegli anni non gli era da meno. Primo
calciatore irlandese a vincere nel 1968 un Pallone d’oro, per i suoi
comportamenti spregiudicati ed irriverenti, in campo e fuori, aveva attirato da
sempre l’attenzione dei media. Capocannoniere per cinque anni consecutivi con la
casacca del Manchester United, autore di centocinquantasette gol in campionato,
vincitore di due scudetti e della
prima Coppa dei Campioni di un team inglese, George “the best”, “il
migliore di tutti” era diventato una delle icone della rivoluzione degli Anni
Sessanta inglese, al punto da essere soprannominato “il quinto Beatles”.
Instancabile latin lover, protagonista di risse furibonde, amava farsi
fotografare alla guida di auto di lusso o mentre scorazzava, di notte, tra i pub
della capitale inglese in compagnia di belle donnine in cerca di un pizzico di
gloria. Il suo carattere istrionico lo spingeva sempre agli eccessi e la sua
improsciugabile voglia di bere alcolici non gli aveva risparmiato qualche triste
nottata passata in gattabuia, la bancarotta e l’inevitabile cirrosi epatica. Le
sue gesta atletiche (e non solo) avevano attirato l’interesse della regista Mary
Mc Guckian che nel suo recente film “Best”, aveva affidato al giovane e
simpatico John Lynch il ruolo del mitico George. Corroso dall’alcol, Best aveva
ricevuto tre anni fa un trapianto di fegato ma aveva continuato a bere
come una spugna, distruggendo anche il nuovo organo che gli era stato donato.
Prima di morire all’età di cinquantanove anni in un letto
Cromwell Hospital di Londra si era fatto fotografare
agonizzante. Smunto, emaciato e con gli occhi spiritati aveva chiesto al tabloid
domenicale inglese “News of the World” di corredare la propria foto con una
laconica e disperata scritta: "Il messaggio finale di George Best: non morite
come me" nella speranza di essere un monito per tutti gli alcolisti
che affogano la loro vita in una bottiglia. Triste epilogo di un campione che ha
illuminato gli occhi dei tifosi di tutto il mondo con le sue serpentine, i suoi
gol e le sue sguscianti incursioni sulla fascia. Sui tabloid inglesi c’è chi ha
criticato aspramente la sua decisione di farsi ritrarre in pelle e ossa sul
“News of the World” e sottolineato come non basta una foto per corrompere la
parte distruttiva presente in ogni alcolista. L’opinione pubblica si è divisa in
due ed io concordo con chi crede che per aiutare davvero qualcuno ad uscire
dall’inferno dell’alcol non servono né slogan, nè campagne di prevenzione. Chi
crede nell’effetto catartico di queste operazioni magiche è, a mio avviso, un
inguaribile romantico o un ingenuo. George Best resterà nel mio cuore né
come l’anarchico ubriacone che saltava gli allenamenti, né come l’uomo che ha
trascorso più tempo nelle corsie di ospedale che nei campi da calcio ma come la
sgusciante ala destra del Manchester United che, messo fuori rosa per motivi
disciplinari per la bellezza di sei turni, al suo rientro in campo, fece
esplodere tutta la rabbia che aveva in corpo, rifilando sei gol allo Stockcity.