I baci mai dati di Roberta Torre

 

A Librino, quartiere della periferia di Catania, la tredicenne Manuela (Carla Marchese) vive con la madre (Donatella Finocchiaro) nevrotica e frustrata, con il padre (Beppe Fiorello), irascibile e violento e Marianna (Valentina Giordanella) l’inquieta sorella di qualche anno più grande di lei. Un giorno dei ragazzi, giocando a pallone, nello spiazzo antistante l’appartamento dove vive Manuela, colpiscono involontariamente, la statua della Madonna, la cui testa, cadendo a terra, si frantuma. I responsabili dell’atto vandalico si danno alla fuga e la polizia brancola nel buio. Una notte Maddalena “sogna” che la Madonna le ha indicato dove sono stati nascosti i cocci della statua e lo rivela al parroco (Pino Micol). Da quel momento in poi, la vita di Manuela non sarà più la stessa e verrà scambiata dagli abitanti del quartiere per una “nuova Bernadette”. La madre, avida ed astuta, prova a sfruttare la situazione raggranellando quanti più soldi possibile. Manuela va però in crisi…

Tutto ebbe inizio con Francois Truffaut che, grazie alla sua felice intuizione, consegnò alla storia del cinema gli amori, le passioni, le illusioni e le disillusioni del suo alter- ego Antoine Doinel, protagonista di tre indimenticabili pellicole (“I baci rubati”, “Non drammatizziamo …è solo una questione di corna” e “L’amore fugge”). Poi fu la volta delle saghe (Il Padrino, Harry Potter, Twilight…) pellicole che mostrarono lo stesso personaggio che affrontava, di pellicola in pellicola, ostacoli e pericoli e che riusciva ad innamorarsi ed a soffrire, a piangere ed a gioire. Ed, infine, fu la volta di “I baci mai dati” di Roberta Torre, titolo che, per assonanza, rimanda, non a caso, proprio ai“Baci rubati”di Francois Truffaut. Con questo ultimo film la regista milanese (ma siciliana d’adozione), propone un’operazione ancora più ardita e coraggiosa di quella proposta dal ciclo di Antoine Doinel e dalle saghe; ripescare un personaggio, preso a prestito da un altro film, e regalarle un ennesimo sussulto, un ulteriore spicchio di vita. Sin dalle prime battute del film s’intuisce che Manuela, la protagonista tredicenne, altri non è che Rosetta, l’indomito personaggio dell’omonimo film dei fratelli Dardenne.” Una Manuela/Rosetta, trasferitasi dalla provincia belga a Catania e profondamente cambiata da allora; non corre più, non ansima, non s’affanna, non lotta, rabbiosa, con le unghie e con i denti, come un animale in gabbia, contro un mondo che le nega la possibilità di condurre una vita normale e di affrancarsi dalla condizione di penosa marginalità. Manuela/Rosetta è “cresciuta”, si è fatta “furba” ed ha imparato ad alzare il tiro, limitandosi a svelare al parroco del quartiere che la Madonna le parla. Manuela/Rosetta non fa tutto questo per un malsano bisogno narcisistico o perché, in un lampo, vuole godersi l’attenzione dei media e la popolarità. Serafica, indifferente e quasi annoiata, seduta su un comodo divano, si limita, ad ascoltare in silenzio le penose richieste dei poveri diavoli che le chiedono di intercedere con la Madonna per poter ottenere l’agognata “grazia” ed il sospirato “miracolo”; c’è chi cerca un lavoro, chi vuol diventare famoso e comparire al Grande Fratello, chi vuole espugnare il cuore di una ragazza, chi spera che il fidanzato sia assunto nel supermercato vicino casa, chi sogna di fare tredici per poter sposare la figlia. Solo sul finale Manuela avrà la forza di ribellarsi alla madre che un attimo prima aveva provato a rassicurarla con un generico ”Tutti hanno diritto a sperare” ed a muso duro le dirà: “Sperare non è lo stesso che essere presi per il culo. Tu non sai quale è la differenza perché è sempre quello che hai fatto con tutti. Mi fai pena. Non diventerò mai come te”

Torre ambienta la vicenda in piena estate e, camera a mano, pedina il volto della giovane protagonista e centra il cuore dello spettatore con delle carrellate che mostrando i poveri illusi che si rivolgono a Manuela, ricordano i poveri analfabeti di Central do Brasil, che, ricolmi di speranza, affidavano sogni alla cinica ed algida Dora.

Un film che intriga ed appassiona ma che non raggiunge le vette poetiche de “Il miracolo” di Eduardo Winspeare, film che accecava per innocenza e candore e che mostrava un dodicenne che compiva, come Manuela, anche lui dei “miracoli”. Torre sceglie un taglio duro e diretto che deborda, di tanto in tanto, nel grottesco e che eccede in qualche sottolineatura di troppo; la madre di Manuela (una biondissima ed intensa Donatella Finocchiaro) é una figura eccessivamente caricata ed involgarita; il padre, lasciato a margine della narrazione, è un ex calciatore ed allenatore fallito, fin troppo periferico e passivo; la sorella, una sbandata fin troppo disinibita che non lesina di diventare l’amante dell’onorevole che, senza scrupoli, andava a letto con sua madre ed, infine, Manuela, statua di sale e creatura di sabbia, un’adolescente dall’emotività estremamente silente e coartata. Non manca però in questo film il tocco visionario tipico delle pellicole precedenti della regista. Da antologia le scene ambientate nel negozio della parrucchiera/ fattucchiera (Piera Degli Esposti) con delle surreali donne con i capelli super-cotonati (da zucchero filato), i sogni ed i collages inquieti ed inquietanti di Manuela. Sul finale Torre ci regala un ultimo ed annoso dubbio; può una regista che adotta un taglio neo-neorealistico proporre dei sogni che omaggiano la poetica felliniana? Ai posteri l’ardua sentenza.

 

Recensione pubblicata su Segno Cinema  N.173 - Luglio- Agosto 2011

 

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