Cinema, mente e corpo di Ignazio Senatore

- Zephyro Edizioni 2010

 

 

1.CINEMA E PSICOPATOLOGIA

 

ALCOL

 

Registi e sceneggiatori hanno mostrato più volte personaggi che brindano, con parenti ed amici, intorno a tavole imbandite per festeggiare un matrimonio, la nascita di un figlio, una festosa ricorrenza. Al di là dell’aspetto conviviale e socializzante del bere, sullo schermo sono, all’opposto, comparsi dei personaggi che alzano troppo il gomito; c’è chi tracanna whisky nella speranza di poter dare un calcio ad insoddisfazioni e frustrazioni (Mammina cara, Chi ha paura di Virginia Wolf ?) chi si sbronza perchè non resiste più agli insulti del tempo (La dolce ala della giovinezza) chi affoga nell’alcol, incapace di tollerare una delusione amorosa (Un dollaro d'onore, El Dorado) o perché vittima di eventi traumatici o dolorosi (Dalla terrazza, Sotto il vulcano). Non potevano mancare i film dove compaiono dei clochard perennemente attaccati alla bottiglia (Ironweed, Barfly, Angeli con la pistola) e degli alcolisti in crisi d’astinenza colti da delirium tremens e da allucinazioni microzooptiche (Giorni perduti). Il più delle volte registi e sceneggiatori non scavano a fondo nell’anima di questi dolenti personaggi e si limitano a mostrarli completamente sbronzi mentre farneticano ad alta voce e franano di colpo sul pavimento, come dei burattini senza fili. Generalmente il clima che si respira in queste pellicole è cupo e pessimista ma c’è chi riesce a lasciarsi alle spalle l’inferno alcolomanico da solo (Tenera è la notte) o grazie all’apporto degli Anonimi Alcolisti, (Amarsi, Otto milioni di modi per morire, I giorni del vino e delle rose). Messi da parte questi personaggi ad alta gradazione alcolica, il cinema ha saputo anche raccontare, con un pizzico d’ironia, di quei personaggi estremamente sensibili all’assunzione di alcol perché affetti da ebbrezza occasionale (Notorius) o da ebbrezza patologica (Appuntamento al buio).


28 giorni

di Betty Thomas con Sandra Bullock, Dominic West,  Steve Buscemi, Wiggo Mortensen, Elizabeth Perkins, Azura Skye - USA – 2000 – Durata 103’

 

La giornalista Gwen Cummings (Sandra Bullock) ed il fidanzato Jasper (Dominic West) vivono a New York all’insegna della trasgressione e non disdegnano di assumere allegramente alcol e droghe. E’ il giorno delle nozze di Lily (Elizabeth Perkins), sorella di Gwen ed i due arrivano ubriachi alla cerimonia. Durante il ricevimento continuano a bere e Gwen, completamente sbronza, frana sulla torta nuziale. Per riparare al torto, si mette alla guida della limousine della sposa  alla ricerca di una pasticceria ma, dopo qualche centinaio di metri, perde il controllo della vettura e si schianta contro un’abitazione. Il giudice la condanna a scontare un ricovero di ventotto giorni in una clinica denominata “Mente, Corpo, Spirito” per il recupero dei tossicodipendenti ed alcolizzati, diretta dal dottor Cornell (Steve Buscemi). Gwen è uno spirito ribelle, non rispetta le regole e non fa altro che mostrarsi oppositiva e protestare. Nel tentativo di fuggire dalla clinica si frattura una gamba e, mutato il proprio atteggiamento, partecipa attivamente alle sedute di terapia di gruppo. Dopo aver fatto amicizia con Eddy (Wiggo Mortensen) un ex giocatore di baseball, con Andrea (Azura Skye) e con gli altri ricoverati, trova dentro di sé la forza per dare un calcio all’alcol ed a Jasper, suo (ex) inseparabile compagno di bevute.

Thomas affronta con un tocco ironico e divertente lo spinoso tema dell’alcol-dipendenza ma lo banalizza con uno script esile e superficiale che si chiude con la magica e scontata redenzione della protagonista. L’approccio alla cura, tipicamente americano, è di una grossolana ingenuità, la clinica sembra un villaggio vacanze ed  ricoverati sono costretti a cantare in coro canzoncine stupide (“Tieniti la tua droga e la birra al malto, io ho un potere molto più alto.”) a tenersi per mano ed a recitare una preghiera (“Signore dammi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare quello che posso e la saggezza di comprenderne la differenza. Se ti sforzi, avrai la forza e dunque, forza, forza!!”). La cura prevede diversi approcci ed i ricoverati sono sottoposti a delle sedute di ippoterapia, di terapia familiare e di gruppo, dove la conduttrice orienta i pazienti ai cosiddetti “sfoghi emotivi”. Lo scavo psicologico è bandito e per motivare in qualche modo la scelta alcolomanica della protagonista la regista fa uso di frequenti flashback che mostrano come da piccola, insieme alla sorella Lily, si era presa cura della madre che, dopo l’abbandono del marito, si era attaccata alla bottiglia. Non può mancare la stoccata melodrammatica con la morte per overdose di Andrea, la compagna di stanza di Gwen, fragile, insicura, che tra un pianto e l’altro, trascorreva le ore a tagliuzzarsi il corpo.

 

 

Factotum

di Bent Hamer con Matt Dillon, Lili Taylor, Marisa Tomei - Germania – 2005- Durata 94’ – V.M 14

 

Henry Chinaski (Matt Dillon) è uno scrittore squattrinato ed alcolizzato. Spento, apatico e svuotato non riesce a mantenere uno straccio d’impiego. Trasandato, con la barba incolta e l’andatura ciondolante, cattura l’interesse di Jane (Lili Taylor) una donna sbandata quanto lui. L’impiego come custode di un museo e successivamente come corrispondente di un quotidiano non lo scuote dal torpore e solo le scommesse sui cavalli e la sua inseparabile bottiglia di whisky sembrano donargli un pizzico di bagliore negli occhi. Jane lo lascia per un uomo più ricco di lui e, dopo una breve avventura con Laura (Marisa Tomei) Henry, nuovamente disoccupato, ripiomba nell’indifferenza e nell’apatia e riprende a girovagare senza meta per la città.

Il regista norvegese rispolvera il personaggio di Henry Chinaski già protagonista di Barfly, pellicola anch’essa tratta dai racconti di Charles Bukowski, ma rispetto a Schroeder, più che un alcolizzato innamorato della propria bottiglia, ci mostra uno sconfitto, depresso e chiuso in se stesso, che si lascia scivolare la vita addosso, senza reagire. Le uniche emozioni che il regista gli concede sono queste sue amare considerazioni sulla vita: “Incredibile quanto ferocemente ci attacchiamo alla nostra infelicità, l’energia che bruciamo per alimentare la nostra rabbia. Incredibile quanto un momento siamo lì che ringhiamo come bestie ed un momento dopo ci siamo già scordati come e perché e questo non per ore, o giorni o mesi o anni ma per decadi, vite completamente usate, consegnate agli odi ed ai rancori più insignificanti. Alla fine qui non resta niente alla morte da portare via.”

Neanche la passione per la scrittura sembra dare da Henry la spinta necessaria per affrontare il mondo e l’unico racconto che la casa editrice gli pubblica ha un titolo significativo: “La mia anima gonfia di birra è più triste di tutti gli alberi di Natale morti del mondo”. Il regista evita il lieto fine, i bozzettismi di maniera e, per tutta la vicenda, lascia intendere che nulla potrà scuotere il giovane protagonista dalla propria apatia.

 

 

La gatta sul tetto che scotta (Cat on a hot tin roof)

di Richard Brooks con Paul Newman, Liz Taylor, Burl Ivers, Judith Anderson, Jack Carson, Madeleine Sherwood - USA - 1958 – Durata 108’

 

E’ il sessantacinquesimo compleanno di Harvey Politt (Burl Ives) vecchio, autoritario e ricco proprietario terriero. A festeggiarlo la moglie Ida (Judith Anderson) ed i suoi due figli; il primogenito Gooper (Jack Carson) con la moglie Mae (Madeleine Sherwood) ed i suoi cinque insopportabili marmocchi ed il secondogenito Brick (Paul Newman) un ex giocatore di football, sposato con la sensuale e bellissima Maggie (Liz Taylor). Gooper e la moglie puntano all’eredità dell’anziano patriarca,  Buick ha, invece, la testa altrove ed annega sempre più nell’alcol ed accusa Maggie del suicidio di Skipper, il suo inseparabile amico. Il vecchio patriarca scopre che un male incurabile che lo sta divorando e che ha i giorni contati; dopo aver confessato alla moglie ed a Gooper di non sopportare più i loro meschini intrighi, costringe Brick ad uscire allo scoperto ed a confessare i motivi che lo spingono a bere come una spugna ed a non dormire più al fianco di Maggie. Dopo un duro faccia a faccia Buick riesce a scacciare dalla mente i sensi di colpa che lo divoravano per la morte di Skipper ed a ritornare tra le braccia di Maggie.

Dramma che sprigiona fuoco e fiamme e che punta il dito sulla strisciante ipocrisia che alberga nelle ricche ed insaziabili famiglie borghesi. Brooks ambienta la vicenda all’interno della villa del vecchio Harvey e, per permettere che la tensione salga sempre più, punta tutto su dei dialoghi caustici, affilati e corrosivi. Con grande discrezione, il regista sfuma la relazione omosessuale tra Brick e Skipper e lascia intendere che quest’ultimo si era suicidato per aver insidiato Maggie e non perché era stato abbandonato da Brick.

Come recita il titolo del film Liz Taylor, innamorata del marito e disposta a tutto pur di riconquistarlo, si muove sullo schermo come una gatta selvatica che graffia e lascia i segni dei suoi artigli sull’anima sanguinante di Brick che, nel drammatico faccia a faccia al padre, confessa: “Sono un uomo indegno; solo quando sono ubriaco riesco a sopportarmi.  Solo quando sento il click sto tranquillo. E quando mi scatta quel click nella testa, non sento più il suono di quel telefono, non ricordo più. E’ come il rumore  di un interruttore; smorza la luce rossa, accende la verde e sto in pace. Sono un alcolizzato. Ho bisogno di silenzio”. Il film non ha battute d’arresto, gli ingredienti del dramma dosati alla perfezione e gli interpreti fanno a gara a superarsi. Sei nomination all’Oscar. Tratto da Cat on a hot tin roof di Tenessee Williams.

 

 

Ironweed

di Hector Babenco con Meryl Streep, Jack Nicholson, Carroll Baker, Tom Waits, Ddiane Venora, Michael O’Keefe  - USA – 1987 – Durata 143’ 

 

La vita di Francis Phelan (Jack Nicholson) ex giocatore di successo di baseball, barbone alcolizzato di mezz’età è stata spezzata circa venti anni prima quando, ubriaco, lasciò cadere a terra Jerome, il terzogenito appena nato che morì sul colpo. Da allora vaga come un ombra per gli States, dormendo dove capita e guadagnando qualche spicciolo spalando la terra nei cimiteri o lavorando come garzone per un robivecchi. La sua mente ormai in disordine, corrosa da rimorsi e da tormenti non gli da tregua ed è perseguitata da due fantasmi; quello di un autista crumiro che uccise, involontariamente, da giovane nel corso di una manifestazione di protesta e quello di un vagabondo che accoltellò in un vagone merci perchè voleva rubargli le scarpe. Dopo un lungo peregrinare Francis decide di ritornare nella città natale con Helen (Meryl Streep) la sua compagna, un’ex cantante vagabonda ed alcolizzata e Rudy  (Tom Waits) il suo inseparabile amico che ben presto tira le cuoia, divorato da un cancro. Francis, dopo aver rimediato una camicia pulita, prova a fare i conti con il  passato e si presenta a casa della moglie Annie (Carrol Baker), una donna dolce e comprensiva che l’accoglie affettuosamente. La figlia Pag (Diane Venora) ed il figlio Bill (Michael O’Keefe), messi da parte odio e rancori, provano a scaldargli un po’ il cuore, e lo invitano a rimanere con loro. Francis tentenna e  decide di fare un salto nel misero alberghetto dove alloggiava Helen e la trova morta, riversa a terra sul pavimento. Affranto e macerato dal dolore, invece di ritornare tra le braccia della moglie e dei figli, salta su un treno merci e continua la vita sbandata e rabberciata di sempre.

Il regista ambienta la vicenda nel 1938 ad Albany la spande di fulgida melanconia e ci mostra impietosamente dei barboni che, con grande dignità, sopravvivono alla solitudine, al freddo ed alla fame e tirano avanti solo nella speranza di poter scolare qualche goccio di whisky. “Il dottore ha detto che ho un cancro. E’ la prima cosa che ho. Ha detto tra sei mesi sei morto ed io ho detto: “Meglio così.” è quanto Rudy, ricolmo di disperazione, confida agli  amici d’avventura. Babenco punta più all’atmosfera che all’intreccio narrativo e lascia che la vicenda ruoti intorno alla figura di Francis, un’erbaccia  difficile da sradicare (come recita il titolo del film) che vagabonda per le strade della città, in compagnia dei suoi amici straccioni. Clochard sconfitto e disilluso, alla disperata ricerca di una bottiglia da scolare, prova disperatamente a lasciarsi alle spalle i fantasmi ed i sensi di colpa del passato. Il regista controlla troppo la narrazione, l’edulcora in troppi punti ma ci regala un finale poetico e commovente. Un po’ sottotono Meryl Streep, imbruttita fino all’inverosimile e troppo ai margini della narrazione. Splendida la fotografia di Lauto Escorel. Dal romanzo premio Pulitzer di William Kennedy.

 

 

My name is Joe

di Ken Loach con Peter Mullan, David Mc Kay, Annemarie Kennedy, Louise Goodall, David Hayman - G.B – 1998 - Durata 105’

 

Nella gelida Glasgow, il trentasettenne Joe Kavanagh (Peter Mullan) ex alcolista, ha messo su una scalcinata squadra di calcio. Il campione è Liam (David Mc Kay) sposato con Sabine (Annemarie Kennedy) una tossicodipendente che frequenta il centro di recupero per tossicomani e si prostituisce per procurarsi la droga. Già in passato gli assistenti sociali avevano sottratto alla coppia il loro figlio, il piccolo Scott, e Liam vive nell’incubo che possano nuovamente riprenderselo. In una delle periodiche visite per controllare le condizioni di Scott, Sarah (Louise Goodall). una materna assistente sociale, incontra Joe e tra i due scatta l’amore. Liam è nei guai e se non ripiana un debito contratto dalla moglie, quando lui era ancora dentro, McGowan (David Hayman) il trafficante della zona, gli spezza le gambe. Per salvare il suo pupillo, Joe accetta di fare due viaggi come corriere della droga. Sarah è incinta e quando scopre che Joe si sta mettendo nei pasticci, lo pianta.. Ma lui non vuole perderla e va da McGowan per dirgli che vuole mollare tutto; il boss non vuole sentire ragioni e Joe, dopo aver pestato un paio dei suoi scagnozzi, torna a casa e si ubriaca. Gli uomini di McGowan dopo aver devastato la casa di Liam si dirigono a casa di Joe; Liam lo raggiunge e, disperato,  s’impicca.

La lotta per ottenere il sussidio di disoccupazione, la rabbia, le illusioni perdute, l’alcol, la droga, le lotte del proletariato; c’è tutto Ken Loach in questo film spudoratamente teso, intenso e vibrante. ...

 

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