Al cinema con lo psichiatra
Come ricorda Pablo Picasso "L'arte è una
bugia che serva a comprendere la verità"...Ci sembra ancora di udire le vecchie
e mai sopite dispute tra chi considera il mondo della celluloide "pura
finzione", "falsificazione" e chi lo definisce "specchio fedele della realtà".
Ciò che è inconfutabile è che l'industria cinematografica fonda il suo successo
sulla serialità, sulla ripetizione. Francesco Casetti ricorda che è abitudine
dare un seguito ad un film di successo, ricorrere al ricalco delle formule
vincenti, i "generi" cinematografici che lasciano il posto ai filoni che
ripropongono, fino all'esaurimento, una medesima situazione. Da questa premessa
ne discende che "la fabbrica dei sogni" deve il suo successo alla riproposizione
sullo schermo di codici iconografici di rappresentazione stereotipati e
standardizzati ( il western, il giallo, la commedia). Se un regista volesse
girare un film d'azione, dovendosi adeguare al rispetto delle regole, codificate
ed immutabili, dovrà necessariamente confezionare una trama nella quale non
possono mancare dei folli inseguimenti, delle sparatorie con dei cadaveri
disseminati lungo le strade.
A questa modalità seriale di
rappresentazione non sfuggono quei film che ripropongono, in un numero sempre
crescente, la figura degli "analisti in celluloide". Tutte queste pellicole non
costituiscono un genere a sé, ma sono caratterizzate dalla presenza di chiare
marche di riconoscimento, da specifici tratti distintivi che, schematicamente,
rimandano ad alcune costanti.
In primo luogo, gli "analisti in
celluloide" sono uomini che non riescono a mettere ordine nella loro vita
privata. Tutti i terapeuti che compaiono sullo schermo sono "singles" affranti
ed infelici o individui reduci da separazioni o divorzi ("La casa dei giochi",
"Il grande cocomero"...). Altri, in cerca di protezione ed affetto, per colmare
il loro vuoto affettivo, si invaghiscono delle loro pazienti, travalicando ogni
regola deontologica e finiscono con l'andare a letto con loro ( "Vampiro a
mezzanotte", "La visione del Sabba", "Strana la vita"....). Al fianco degli
inguaribili nevrotici compaiono (come ne "Il silenzio degli innocenti, "Cabal",
"Scissors", "Love kills"...) dei terapeuti folli e criminali, nient'altro che
individui più disturbati dei pazienti che hanno in cura. In altre pellicole ("Lo
strizzacervelli", "Il patrigno II", "Quattro pazzi in libertà"...) compaiono dei
misteriosi "professionisti" che mostrano un'invidiabile capacità terapeutica:
solo successivamente si scoprirà che essi non erano altro che dei pazienti
travestiti da psichiatra. In tutti i film le regole del setting sono
costantemente "violate"; gli "analisti in celluloide" proseguono, infatti,
come se nulla fosse, il trattamento in spazi extraterapeutici; chi in piscina
("Caruso Pascowsky"), chi su un lussuoso yacht ("Una coppia alla deriva"), chi
su una pista di pattinaggio artistico ("Amore e magia"), chi al ristorante
("Analisi finale").
In altre pellicole compaiono altri
"professionisti" che improvvisano approcci e metodologie più disparate, prossime
più a quelle di stregoni e ciarlatani che a quelle di tecnici del sapere
scientifico. Appare naturale che l'incontro con il terapeuta non sortisca per il
paziente l'effetto benefico desiderato; coloro che "ingenuamente" si erano
affidati a questi sprovveduti, impreparati e goffi "analisti in
celluloide", alla fine, saggiamente, decideranno che forse è più sbrigativo
cavarsela da soli. Dopo queste brevi considerazioni si potrebbe pensare che il
mondo della celluloide "maltratti" e "squalifichi" per partito preso la
categoria degli psicoterapeuti. "Per fortuna", il cinema non ha risparmiato
critiche a tutta la classe medica. Basterà ricordare le accuse mosse ai colleghi
chirurghi ("Bisturi, mafia bianca"), ai medici di base ("Il medico della
mutua"), ai dermatologi ("Caro diario") tanto per citare alcuni esempi. Per
Serge Moscovici "piuttosto che negare le convenzioni e i pregiudizi legati alle
rappresentazioni sociali (di cui il cinema è una delle espressioni più evidenti)
l'unica strada che ci rimane é quella di comprenderne il senso e analizzarla
senza frettolose e semplicistiche riduzioni".
C'é da dire che il mondo del cinema
propone, non a caso allo spettatore un campionario fatto di terapeuti incauti ed
imbroglioni, folli ed assassini. In questo modo, chiunque è in sala potrà
sentirsi finalmente rassicurato e potrà concludere che lui è meno folle di loro
e potrà, in questo modo, vivere felicemente senza di lui. L'industria
cinematografica nel proporre così in negativo la figura "dell'analista in
celluloide" non si sottrae all'ingrato compito di indicare allo spettatore, e a
noi tecnici del ramo, i possibili errori e le debolezze nelle quali possiamo
incorrere nella nostra pratica clinica quotidiana. E' pur vero che al cinema (
sempre al passo con i tempi) non compaiono più quelle caricature di analisti
taumaturgi ("Io ti salverò"...), i rozzi e spietati fautori dei trattamenti di
stampo medioevale ("Frances", "Betty blu"...) ed i classici terapeuti, custodi
del controllo sociale ("Qualcuno volò sul nido del cuculo"...)
Dopo aver visto le innumerevoli
rappresentazioni "dell'analista in celluloide" non ci resta che ringraziare
l'industria del cinema che, con intelligenza ed ironia ci costringe a chiederci
come mai si è andato consolidando questo cliché nell'immaginario collettivo. A
quei colleghi che storcono il naso quando si vedono rappresentati sullo schermo,
in maniera così caricaturale consiglio di andare più spesso al cinema; forse
solo in questo modo riusciranno a curare la loro onnipotenza.
Stralcio dell'articolo pubblicato sulla Rivista "D.I.S"- Rivista di scienza e arte della salute - Anno III. Numero I- (Marzo- Aprile) - 1995