“Roberto Faenza Uno scomodo regista”

di Ignazio Senatore - Falsopiano Edizioni - 2011

 

INTRODUZIONE

 

 

Io e Roberto ci siamo incontrati la prima volta nel 2003. Avevo già pubblicato “L’analista in celluloide” e “Curare con il cinema” ed organizzato nell’Aula Magna dell’Università “Federico II” di Napoli, la proiezione del film Come due coccodrilli alla presenza di Giacomo Campiotti, di Fuori dal mondo di Giuseppe Piccioni, con Silvio Orlando in veste di ospite d’onore, e de La seconda ombra di Silvano Agosti al Teatro Nuovo di Napoli, con Agosti nei panni dell’anarchico mattatore.

Non lo conoscevo personalmente ma, quando seppi del tema che avrebbe trattato in Prendimi l’anima, con un pizzico di sfrontatezza, contattai la Jean Vigo, la sua casa di produzione, presentai le mie credenziali, e proposi loro di allestire l’anteprima del film al cinema Modernissimo di Napoli, alla presenza di psichiatri, psicologi ed appassionati di cinema. Roberto accolse entusiasticamente il mio invito. Ricordo ancora oggi la sala zeppa ed affollata fino all’inverosimile (era una proiezione mattutina!). Erano presenti anche i colleghi giornalisti della carta stampata, delle televisione e delle emittenti radiofoniche locali. L’attesa era enorme. Il clima in sala era piacevolmente effervescente. Dopo i saluti di rito, partì la proiezione della pellicola che al termine fu salutata dal pubblico con un fragoroso e caloroso applauso. Come concordato in scaletta intervenne prima il regista che esordì dicendo:Questo film ha veramente delle strane coincidenze mandate non so da dove... Ci tenevo molto a presentare un film a Napoli, perché è una città che amo... Poi sei comparso tu con la tua e-mail..”, e rievocò scherzosamente le modalità con le quali l’avevo contattato e come era nata l’idea della presentazione a Napoli. Dopo aver raccontato la genesi del film, qualche aneddoto relativo alla sua realizzazione, passò la parola a Nadia Neri, una psicoanalista junghiana, che affrontò lo spinoso e controverso rapporto tra Jung e Sabina Spielrein. A sua volta Elda Ferri, produttrice di tutte le pellicole di Faenza a partire dal 1978, illustrò le difficoltà incontrate nella realizzazione del film. Infine una emozionatissima Emilia Fox confessò di essersi completamente innamorata del personaggio di Sabina e della passione che Roberto aveva mostrato per quella storia.

Regista e ospiti furono sommersi da decine domande e dovemmo concludere l’incontro, a malincuore, per ovvie ragioni di tempo. Di Roberto quel giorno mi colpirono l’estrema gentilezza, generosità e disponibilità con la quale aveva risposto alle domande che gli erano state poste, (anche a qualcuna particolarmente velenosa di qualche giornalista presente in sala), con l’onestà e la tranquillità di chi non aveva nessuna posizione preconfezionata da difendere e con la sincera curiosità di scoprire, grazie ai loro interventi, qualche aspetto del film che lui stesso aveva messo in campo “inconsapevolmente”.

Ci salutammo con la certezza che ci saremmo incontrati in futuro, cosa che accadde l’anno seguente per la presentazione a Roma, in una delle Librerie Feltrinelli, del mio volume “Il cineforum del dottor Freud”. Gli avevo chiesto di essere al mio fianco e lui, senza pensarci due volte, aderì immediatamente alla richiesta. Discorremmo con i presenti del mio volume ma anche in quell’occasione, non si tirò indietro alle numerose domande che il pubblico gli pose sui rapporti tra cinema e psicoanalisi.

Lo incontrai nuovamente per la presentazione di “Psycho cult”, un altro volume che avevo dato alle stampe e che presentai nel 2006 insieme a lui, a Matteo Garrone e a Marco Giusti (autore di una divertentissima prefazione), in una libreria Feltrinelli a Roma. Fu una chiacchierata piacevolissima e discutemmo con il pubblico, tra l’altro, della ricchezza visiva dei B movie italici, delle storiche stroncature che certi critici avevano riservato al cosiddetto cinema di “genere”, del futuro del cinema nostrano.

Quando Roberto tornò a Napoli nel 2007 per presentare alla stampa l’anno successivo I Vicerè, il nostro incontro fu fugace perché, per ragioni professionali, dopo averlo intervistato, dovetti scrivere al volo l’articolo per Epolis - Il Napoli, quotidiano per il quale collaboravo al tempo.

Non l’ho più sentito per un po’ (del resto, per ragioni lavorative, in Italia non c’è quasi mai) e l’ho rivisto per la presentazione alla stampa a Napoli, a marzo 2009 del suo ultimo film “Il caso dell’infedele Klara”. Il film fu accolto male dalla critica locale e quando ci recammo, insieme alla dolcissima Laura Chiatti, alla sede de il quotidiano Il Mattino per un “forum” con i giornalisti della testata partenopea, per la prima volta vidi Roberto leggermente accigliato e meno raggiante del solito.

Quando organizzai a Napoli nell’aprile 2009, il primo concorso di cortometraggi “I corti sul lettino – Cinema e psicoanalisi” fu la prima persona alla quale pensai come presidente della giuria. Accettò anche questa volta il mio invito, senza la minima esitazione, e, lontano mille miglia dai lustrini e dai clamori divistici di certi suoi colleghi, volle arrivare a Napoli e ripartire per Roma in treno. Dopo aver visionato accuratamente tantissimi cortometraggi, presenziò alla serata finale insieme agli altri componenti della giuria e discusse con i registi e con gli attori presenti in sala sulle tecniche da loro adoperate, sulla scelta dei temi, sulla direzione degli attori.

Ci rivedemmo qualche mese dopo, a luglio di quell’anno, quando presentò Il caso dell’infedele Klara nell’ambito della Rassegna “Accordi e Disaccordi”, ideata da Pietro Pizzimento, alla quale collaboro da alcuni anni. In quell’occasione ritrovai il Roberto di sempre, pieno di propositi e di energie già in moto per mille progetti futuri.

Perché narrare così dettagliatamente le diverse occasioni nelle quali ci siamo incontrati?

Per sottolineare, forse, che l’idea del volume.-intervista è nata sottotraccia proprio grazie alle nostre “occasionali” frequentazioni di questi anni. Nel corso delle nostre chiacchierate intuivo che l’uomo non amava molto discutere sulle annose questioni relative al cinema nostrano, sui film usciti in sala, né commentare la poetica di un regista o le capacità professionali di un attore o di un’attrice. Non è che non gli piacesse discorrere di cinema ma la sensazione che ne ricavavo era che, il suo spirito solitario, il suo carattere schivo e riservato, mal si sposava, con il commentare le “gesta” dei tanti “compagni di viaggio” che affollano il mondo della celluloide. Non solo. Di lui mi colpiva la sua “insolita” modestia, la sua naturale tendenza a sottrarsi agli elogi che, volta per volta, riservavo alle sue pellicole in uscita. Si scherniva per poi regalarmi, di tanto in tanto, qualche piccola aneddoto relativo a un suo film.

Una cosa però era certa; vuoi anche per la sua carica di ricercatore e docente universitario e/o per la sua frequentazione con gli studenti, era informato su tutto; conosceva benissimo il mondo dell’editoria cinematografica online, il nome dei produttori, anche di quelli a me sconosciuti, ricordava per quale testata scrivesse quel critico e dove e per quale occasione aveva incontrato quell’attore o quell’attrice.

Mentre discorrevamo tra un caffè, un primo piatto o un trancio di pizza, come in una sorta di tacito accordo, lasciava scivolare sempre il discorso sui temi legati alla psicoanalisi e alla psichiatria.

Mi colpiva in lui la sua genuina ed autentica ricerca della conoscenza, quella ostinata spinta a voler varcare il confine di un sapere (quello psichiatrico-psicoanalitico), di cui si è sempre dichiarato appassionato. Mi chiedeva del mio lavoro di psichiatra all’Università, il tipo d’approccio che utilizzavo in terapia, le patologie dei pazienti che avevo in cura. Ascoltava in silenzio, con attenta partecipazione pronto a rilanciare, subito dopo, con una nuova domanda.

Della sua vita privata non faceva mai cenno. Solo una volta si è lasciato “scappare” di non essere sposato, ma padre di due gemelli: l’uno con la passione per i documentari e l’altra architetta e stilista. Ed è proprio in una delle tante appassionate chiacchierate che ho lanciato l’idea di questo volume. Chi lo conosce sa che é una persona lontana anni luce dal luccichio delle luci della ribalta e da una certa spocchiosità divistica, cara a molti personaggi della cinematografia italica. Ha lasciato decantare un po’ l’idea dentro di sé e poi ha accolto favorevolmente la mia proposta. Del resto, da cinefilo incallito, ritenevo quasi doveroso colmare un vuoto presente nell’editoria del settore e dedicare un volume interamente dedicato a uno dei registi più significativi della nostra cinematografia.

Mi sono accostato alle opere di Roberto con il desiderio di offrire, anche ai lettori più giovani, che non conoscono (probabilmente) la sua filmografia completa, con un atteggiamento di grande curiosità e ponendomi di fronte alle sue opere con l’obiettivo di recuperare una sorta di “verginità dello sguardo”. Rivedere dei film di tanti anni fa, scrostare da essi la patina della memoria, non è un’impresa così facile come si possa pensare. Nell’accostarmi nuovamente a queste pellicole, ho ritrovato con piacere dei passaggi narrativi che avevo dimenticato, recuperato immagini, sfumature, dialoghi, ormai seppelliti nell’oblio. Mi sono anche imbattuto in delle zone d’ombra, in quei piccoli  nei che costellano la sua ricca produzione di regista.

Ma gli eventuali pregi e difetti vanno rivolti al Roberto Faenza regista, soggettista e sceneggiatore? Al Faenza libertario e “rivoluzionario”, autore delle sue prime anarchiche e schioppettanti pellicole; al regista satirico che ha messo alla berlina DC e PCI; a chi (tra i primi registi italiani) ha avuto il coraggio di girare un film in America; all’autore più internazionale dei nostri registi, che ha diretto attori del calibro di Harvey Keitel, Max Von Sidow, Miranda Richardson, Kristin Scott Thomas, Keith Carradine, Daniel Auteil, Claudine Auger e i nostrani Marcello Mastroianni, Claudia Cardinale, Laura Morante e Margherita Buy? Al regista che ha appena finito di girare un film interamente “americano”, con una galleria di grandi interpreti, tra cui due premi Oscar, Ellen Burstyn e Marcia Gay Harden, oltre a Lucy Liu, Peter Gallagher, Stephen Lang (il cattivo di “Avatar”), i giovanissimi Toby Regbo, Deborah Ann Wall e la nipote di Hemingway, la ventenne Dree?

Al regista che si è avvalso della collaborazione di costumisti premi Oscar come Danilo Donati e Milena Canonero, di direttori della fotografia del calibro di Giuseppe Rotunno, Tonino Delli Colli, Blasco Giurato, Maurizio Calvesi, di autori di colonne sonore di prestigio come Ennio Morricone, Paolo Buonvino, Franco Piersanti e Andrea Guerra?

Personaggio unico e complesso all’interno del panorama cinematografico italiano, Faenza ha avuto il merito di non appiattirsi mai su un filone e di sperimentare sempre nuovi percorsi. Dopo il successo di Escalation avrebbe potuto cavalcare l’onda del regista ribellista e post-sessantottina; dopo la bufera scatenata da Forza Italia! e Si salvi chi vuole vestire i panni del fustigatore della corruzione e dell’imborghesimento della classe politica italiana; dopo i fasti di Prendimi l’anima diventare il contro-altare di Marco Bellocchio e proporsi come il regista più psicoanalitico del suolo italico. Faenza si è sempre sottratto alle mode, ai facili incassi al botteghino ed è sempre andato avanti, testardamente, per la propria strada, noncurante delle faziose e “programmate” stroncature da parte di una certa critica che lo attacca, ormai sistematicamente,  all’uscita di ogni film.

Per confezionare l’intervista presente nel volume ho incontrato Roberto nella sede della Jean Vigo, un luogo caldo e raccolto a due passi dal Colosseo, alle cui pareti campeggiano i manifesti dei suoi film più rappresentativi (compreso uno in giapponese de I Vicerè e quello de La vita è bella di Roberto Benigni, prodotto dalla preziosa e infaticabile Elda Ferri insieme a Luigi Braschi). Qua e là, tra gli scaffali delle librerie, qualche targa e i premi tra i tanti collezionati in carriera, tra cui spicca la candidatura del 2005 a miglior regista europeo per Alla luce del sole o il David di Donatello 1993 per Jona che visse nella balena. Questi riconoscimenti non sono stati messi in bella mostra per un vanitoso rispecchiamento narcisistico, ma solo come silenziosa testimonianza di un percorso artistico compiuto nell’arco di quarant’anni.

Durante l’intervista si è concesso come non mai. E’ riandato con la memoria a degli avvenimenti del passato, rispolverato nomi e personaggi caduti ormai nell’oblio e, soprattutto, ha accettato con grande ironia e professionalità le critiche e le annotazioni che gli ho rivolto. 

Come ha lui stesso sottolineato nel corso dell’intervista, Faenza è un autore difficile da inquadrare, un cineasta più amato dalle donne che dagli uomini, un regista che procede a zig-zag e in qualche modo “imperfetto”. Il grande Francois Truffaut affermava: “I film respirano attraverso i loro difetti. Il capolavoro è irrespirabile.” E proprio per quelle scalfitture, crepe, disegualità ed “imperfezioni” che amo il cinema di Roberto.

 

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