Intervista a Wim Wenders

 

Ognuno ha il proprio regista che si porta nel cuore. Io non amo le classifiche ma Wenders è certamente uno di quelli che ti riconciliano con il mondo e che ti aiutano a sognare. Di fronte alla sua sterminata filmografia sei come paralizzato e prima di scaldarti un po’ non puoi che partire con una domanda generica e di largo respiro.

 

Credo che si pensa che il lavoro di un regista avendo a che fare con delle immagini sia paragonabile a quello di un pittore. Credo che quello con uno scultore renda meglio l’idea. Quando faccio un film so che dovrà svolgersi in una certa unità di tempo, come se dovessi costruire un edificio.

 

A quali Maestri del cinema si è ispirato?

 

Devo dire che ho sempre pensato di non essere stato influenzato da nessun Maestro del cinema ma soprattutto dalla pittura e da artisti come Vermeer. Verso i ventotto anni un mio amico mi ha detto che dovevo andare assolutamente andare a vedere un film Viaggio a Tokio di un regista giapponese di cui non ricordava neanche il nome. Andai in questo cinema di New York e vidi il film di Ozu quattro volte di seguito. Mi andai ad informare subito quali altri suoi film erano in circolazione e ne trovai solo tre. Allora decisi di partire per Tokio per vedere tutti gli altri suoi film. Quel film per me fu come una rivelazione non solo per la semplicità delle storie ma perché parlavano di padri, di madri, di sorelle, di fratelli, di figli e qualsiasi padre si sarebbe potuto identificare con quel padre, un figlio con quel figlio. Le sue storie erano semplici ed universali e mi ha fatto capire che da quel momento in poi quello sarebbe stato il cinema per me.

 

Nei suoi film lascia molto spazio alle strade, ai palazzi, ai deserti e nel corso di numerose interviste ha dichiarato che il paesaggio per lei, ha la stessa funzione di quello di un attore.

 

Quando ero bambino vivevo in un piccolo appartamento ed il sogno di mio padre era quello di costruire una casa più grande, sogno che realizzò quando ero in America.  Era abbonato a varie riviste di architettura ed io ero affascinato da queste case luminosissime, con grandi finestre e con degli enormi spazi sul davanti. Verso i sei, sette anni ho iniziato a disegnare una casa per noi, creavo questi sogni e viaggiavo con la mia fantasia. Il cinema funziona così. Permette alle persone che sono vissute nel loro piccolo ambiente di allargare i loro orizzonti. Il mio approccio al paesaggio è soltanto mio e non credo che sia paragonabile ad altri registi.

Quando faccio un film è perché sento che ho una necessità. Quello che mi è sempre capitato da quando ho iniziato a girare i primi film è che amo viaggiare e quando mi trovo in un luogo se sento che questo mi attrae e che riesco ad avere un rapporto particolare con quel posto, allora inizio a pensare ad una storia da raccontare. Improvvisamente la storia mi viene so che può essere raccontata solo in quel luogo. Non nasce dentro di me prima la storia e poi il luogo dove girarla ma il contrario. Per quanto riguarda i luoghi, credo che mi attirano molto gli spazi vuoti, quelli che non sono stati ancora riempiti. Berlino, ad esempio, prima del crollo del Muro era una città ricchissima di spazi vuoti che improvvisamente, sono stati tutti riempiti.

 

Crede, dunque, che i luoghi possono influenzare la mente di chi ci abita?

 

Credo che ognuno di noi siamo il prodotto del luogo dove abitiamo molto più di quanto non possiamo pensare. Secondo me la struttura di una città diventa la struttura di una persona. Te ne accorgi subito se una persona viene da Roma o da Berlino, Non è una questione di lingua o d’accento ma è un tipo di organizzazione di stato mentale.

 

I suoi film sono tutte storie di viaggi e narrano spesso di un uomo che va alla ricerca della propria identità e della propria radice. In Paris- Texas, Francis vuole ritornare a Paris del Texas, luogo dove è stato generato.  Lei ha vissuto dieci anni in America ed ambientato film in ogni parte del mondo. In questo suo continuo girare per il mondo che importanza riserva a quel sentimento che potremmo definire il sentirsi a casa?

 

Per anni ho ritenuto che la strada fosse la mia casa. Non è che volessi scappare necessariamente da qualche parte,; l’essere per strada mi faceva sentire felice. In passato quando mi ponevano questa domanda sentivo un senso di fastidio Stare per strada era talmente un piacere che non riuscivo a capire perché dovessi restarmene in una casa. Con il tempo ho capito che dopo essere stato a Tokio, San Francisco, nel deserto australiano, a Berlino, a Lisbona, nel west dell’America, ho capito che in quei luoghi mi sentivo a casa e con il tempo avevo nostalgia di quei luoghi. Ma un elemento poi mi ha fatto capire che non mi sentivo più a casa quando scoprivo che non mi trovavo più a parlare tedesco ed allora, in quel momento non mi sentivo più a casa mia. Ma per me essere tedesco on ha mai significato restare in Germania e con il tempo ho compreso che quel piccolo paese che si trova nel centro dell’Europa da dover venivo significava molto per me.

 

In che modo la musica ha influenzato i suoi film?

 

Da bambino, anche se possedevo una macchina fotografica ed un videoproiettore la mia vera passione era la lettura. Ricordo che costringevo mia nonna a leggermi delle cose per tutta la giornata. Esausta per le mie richieste, mia nonna iniziò a leggere i libri e seguiva con un dito le parole affinché imparassi a leggere da solo. Sin da allora ho cominciato a credere che la cosa buona del libro non erano le parole ma quegli spazi vuoti che c’erano tra un rigo e l’altro.  Ed era proprio quegli spazi che potevo invadere con la mia immaginazione. Nei miei film cerco di creare degli spazi tra le immagini. La musica è il vento che soffia in questo spazio che lascio tra le immagini. La musica non è un ingrediente per me; è quello spazio di libertà che desidero avere tra una riga e l’altra. Per fare un film ho bisogno di sapere dove si svolge e che musica lo accompagna. Senza queste due condizioni non saprei proprio come iniziare a fare un film. (...)

 

Torna alla Homepage »