Mondo ultras

 

 

C’era una volta un popolo felice e contento. Un giorno, una terribile orda di barbari si diresse alle porte della loro città. Essendo privi di guerrieri, il Gran Consiglio decise di giocare d’astuzia. Fu dato ordine all’uomo più robusto ed alto della città, un gigante di nome Eraclio, di andare incontro ai nemici e di iniziare a piangere alla loro vista. Interrogato dai barbari, il gigante confessò di essere stato deriso dai suoi concittadini perché era il più mingherlino di tutti. Alle sue dichiarazioni i nemici fecero all’istante dietro front e se ne scapparono a gambe levate.” Questa storiella era una di quelle che amavo sentire di più da bambino. Me l’aveva raccontata una volta mio padre e amavo farmela ripetere all’infinito. A ben pensarci, questa favoletta mette in risalto come sia possibile battere un avversario senza sferrare mai un colpo, utilizzando (solo) le armi dell’ingegno e dell’arguzia. L’aspetto psicologico, si sa, è un’arma determinante nella sfida con il nemico. Lo sanno bene questo gli ultras che affollano ogni domenica le curve degli stadi di calcio. Gli striscioni ed i loro cori ne sono la prova lampante. Cristiano Militello nel suo “Giulietta è ‘na zoccola” (edito da Kowalski Editore) ha raccolto cinquecento striscioni apparsi negli stadi d’Italia. Il libricino è simpatico ma l’autore, forse troppo attento alle esigenze di cassetta, ha inserito nel testo solo striscioni “divertenti”, depurando e sbiadendo, di fatto, “il mezzo” della loro vera forza caustica e rivoluzionaria. Queste scritte che compaiono ogni domenica nelle curve di tutt’Italia, pur essendo emessi da un unico emittente (gli accaniti sostenitori della squadra del cuore) si rivolgono, in realtà, a diversi destinatari. Ad un primo ed un secondo livello, il messaggio è inviato ai giocatori e agli ultras della squadra avversaria; ad un terzo, in generale, ai media (siano essi carta stampata o TV); ad un quarto al gruppo di tifosi “concorrenti” che tifano la loro stessa squadra ed un quinto che è da considerare assolutamente autoreferenziale.  Se ci attestiamo ai primi due livelli, scopriamo che le scritte mimano uno stile militare, un po’ enfatico e ridondante. Quel “Sbrana grifo, sbrana”, immortalato in uno striscione della torcida perugina, ne è un fulgido esempio. La partita di calcio non è più un incontro sportivo bensì una battaglia fino all’ultimo sangue, da combattere a viso aperto, senza esclusione di colpi. I nomi stessi dei supporter sono tutto un programma, ma per lo più si richiamano ad animali feroci (pantere, tigri, leoni) o a gruppi di combattenti (brigate, commandos, falangi, fedayn). Secondo l’ultras-pensiero, il nemico non deve essere solo battuto ma deriso, sconfitto, umiliato. I cori, non a caso, vanno in genere dal banale “Devi morire” (rivolto all’avversario che è rimasto a terra dopo uno scontro di gioco) all’immortale “Vaffa…” d’italica derivazione.  Altra regola assoluta che ogni ultras deve rispettare è quella di sommergere di fischi i più forti giocatori avversari, di beccarli al minimo errore, con la speranza (spesso vana) di innervosirli, di deconcentrarli e di renderli innocui ed inoffensivi. Infine nel DNA di ogni ultras c’è la convinzione che più è puro il proprio tifo e più forza riesce ad infondere alla propria squadra del cuore.  I meccanismi psicologici che sottendono le molteplici modalità di pensiero dell’ultras sono di tipo “magico” e compaiono generalmente nel corso dell’infanzia. “Se penso intensamente una cosa, questa diventa realtà” è quello che, segretamente, ripete a se stesso il bambino. Tale modalità di pensiero non scompare mai del tutto dalla nostra mente; in età adulta essa è spesso sostituita dalla religione (se prego, accadrà). Ed è di fede, infatti, che parlano i capi ultras, una scelta di campo per loro non solo ideologica, totale, assoluta, a 360 gradi. Un vero ultras deve essere sempre al fianco della squadra del cuore, se vince, se perde, se sta lottando per il primato o per la retrocessione. Del resto, se risaliamo all’etimo della parola stessa, tifo rimanda al greco “tiphòs” che sta per “ardere”, “offuscare i sensi”, “essere trasportato”.  Ma è ancora la psicoanalisi che può venirci incontro e che può offrirci altre interessanti chiavi di lettura. “Identificazione con l’aggressore” è un’altra tipica modalità adottata dal bambino, sapientemente illustrata da Anna Freud. Fateci caso. Ogni qual volta il bambino si trova di fronte ad una situazione di pericolo (un adulto minaccioso, un animale “pericoloso”) temendo di essere aggredito, s’identifica con l’oggetto che gli incute terrore e, ribaltando i ruoli, diventa lui stesso aggressore. Non è un caso ma più la squadra avversaria è sentita come “forte” ed “imbattibile” e più alto deve essere il livello dello scontro fisico e verbale tra le due tifoserie. Di fronte a questi sempre più esasperati livelli di violenza, c’è chi liquida il tutto, definendoli “atti di teppisti”. Ma anche in questo caso la lettura di questo fenomeno potrebbe essere più complessa. Un tempo gli stadi erano altra cosa e si andava tranquilli e sicuri a vedere, con tutta la famiglia, la propria squadra del cuore. Gli scontri, si sa, avvenivano altrove. Le “piazze” erano i teatri dove si fronteggiavano gli “estremisti” di destra e di sinistra.  Al tempo, c’era chi credeva che solo innalzando il livello dello scontro di classe, era possibile cambiare “il sistema”. Alla DC e agli altri partiti di governo andava bene così. Terminate le stagioni della strategia della tensione, crollati gli altri ideali rivoluzionari che animavano i giovani extraparlamentari, “la piazza”, il luogo “per eccellenza” di aggregazione e di “protesta” è venuta a mancare, a poco a poco. Deprivati del loro abituale teatro di scontro, queste frange di violenti, si sono riversati negli stadi, divenuti gli unici collettori sociali dove era “possibile” (in nome e con l’alibi della squadra del cuore) scambiarsi botte e legnate. Ma se in piazza, un tempo, erano per lo più i giovani della borghesia italiana a fronteggiarsi, oggi negli stadi ci sono solo i ragazzi del proletariato o del sottoproletariato. Ma c’è di più. Se un tempo il livello dello scontro sociale era d’appannaggio degli studenti universitari, l’età media degli ultras è notevolmente più bassa. “Religione, oppio del popolo”, sentenziava un tempo Karl Marx; ai tempi nostri il calcio e la televisione, sono (non a caso) le droghe più diffuse dal potere.  Ne sa qualcosa Silvio Berlusconi, impegnato da tempo, massicciamente in entrambi i campi. Ma gratta, gratta il vero “rimosso” che sottende il tifo (specie quello più violento) è la morte.  Questo fondamentale passaggio lo si può comprendere solo se si è assistito, almeno una volta nella vita, ad una corrida. Ernest Hemingway, Garcia Lorca, Pablo Picasso (e non solo) ne hanno cantato le immortali gesta. L’immenso fascino della corrida non è nell’infame uccisione del toro ma solo e soltanto in quell’attesa magica del suo ingresso nell’arena. Il toro, con le sue narici fumanti ed il suo tumultuoso irrompere nell’arena, suscita (sempre) negli spettatori un sentimento che è un misto tra ammirazione e paura. La potenza che esprime nella sua “dissennata” corsa, non solo incute una naturale spaesamento ma è fonte di straordinaria commozione. In fondo, il destino del toro è segnato, come quello dell’uomo e lo spettatore, nel corso della corrida, non assiste che alla rappresentazione della propria morte. La corrida non è solo la metafora della lotta del male contro il bene ma anche (e sopratutto) quella dalla morte sulla vita. Non è forse quella “signora in nero” il nemico che l’uomo non potrà mai sconfiggere? Alla luce di tutte queste riflessioni, se fossi un ultras, più di confezionare scritte sadiche, violente e volgari, sposerei quel motto “Una risata vi seppellirà”, coniato dagli anarchici. “Giulietta è ‘na zoccola”, ironico e sulfureo sberleffo degli ultras del Napoli, indirizzato ai tifosi del Verona, non è (forse) uno striscione inimitabile, entrato a far parte dell’immaginario collettivo?

 

 

La Voce della Campania – Numero 12- Dicembre 2004

 

 

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