La nona configurazione (The Ninth Configuration)

di William Peter Blatty con Stacy Keach, Scott Wilson, Jason Miller, Tom Atkins, Moses Gunn, Robert Loggia, Joe Spinell - USA – 1980 – Durata 118’

 

Il governo americano ha trasformato un vecchio castello del Bronx in un ospedale psichiatrico per curare soldati, ufficiali e marines reduci dalla guerra del Vietnam. Il colonnello Hudson Kane (Stacy Keach) psichiatra anticonformista è il nuovo direttore della struttura e lega immediatamente con il tenente Reno (Jason Miller), appassionato di teatro classico, con il maggiore Krebs (Tom Atkins) e con il capitano Billy Cutshaw (Scott Wilson) un astronauta impazzito che si era rifiutato di partire per la Luna. Kane lascia piena libertà agli ex soldati, li autorizza a mettere in scena l’Amleto ed il Giulio Cesare di Shakespeare e discetta con loro sulla solitudine, sul destino dell’uomo e sull’esistenza di Dio. Ma il colonnello Kane, corroso dai fumi della pazzia, altri non è che Vincent “Killer” Kane, un eroe del Vietnam così soprannominato per la quantità di nemici uccisi in battaglia; il vero direttore della struttura è suo fratello che vive al suo fianco e finge di essere ai suoi ordini. Nel tragico finale, Vincent, stanco di lottare contro i propri fantasmi, si da la morte.

Pellicola claustrofobica, ai limiti del surreale, girata (quasi) totalmente nell’oscuro e tenebroso castello-manicomio. Il regista predilige un taglio dal respiro teatrale e sin dalle prime battute s’intuisce che qualcosa di dirompente sconvolgerà quel fittizio e precario equilibrio che regna nel manicomio. In quell’insolito luogo di cura il tempo sembra congelato ma il fuoco cova sotto la cenere e nel finale incandescente il vero Hudson Kane svela agli altri militari il doloroso segreto: “Appena arrivò negli Stati Uniti lo tenevamo sotto controllo. Sembrava che fosse sull’orlo di un esaurimento nervoso molto grave ma  poi il nostro computer fece cilecca e spedendolo finì per dargli un’occasione, una maniera di guarire evitando di scandagliare sul suo male, per nascondere le proprie colpe. Ma più che altro era un modo per levarsi di dosso quel marcio, un auto punirsi per aver ucciso indiscriminatamente. Prima fu solo una pretesa ma, sulla via del ritorno dal Vietnam diventò; l’odio feroce per il Kane assassino divenne negazione ed anche una sua proiezione. “Un altro ha ucciso così, non io”. In un altro momento la negazione divenne così forte che cancellò totalmente l’identità di Kane; lui soppresse il Kane che uccideva per evidenziare il bene che c’è in ognuno di noi. E’ possibile, eccetto quando si sogna. Sperimentavamo, capite? Si stava dentro la situazione, guardando fuori un paziente che funzionava da psichiatra, senza preconcetti. Speravamo che avesse trovato una risposta o qualche nuova spiegazione. E credo che con questi uomini ci sia riuscito.”  

Il manicomio essendo una fortezza medievale è freddo ed imponente. Dal romanzo Twinkle, Twinkle, Killer Kane dello stesso William Peter Blatty.

 

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