Memento di Christopher Nolan – USA -2000
Seymour Chatman, professore
di Retorica alla University of California, diede alle stampe un testo “Storia e
discorso”, pubblicato nel lontano 1981 da Pratiche Editore
L’Autore, nel suo
interessantissimo saggio, dopo aver passato ai “Raggi X” la struttura narrativa
del romanzo e del film e citato gli strutturalisti russi ed i semeiologhi
francesi, giungeva ad una rivoluzionaria (?) conclusione: di fronte alla
creazione artistica bisogna sempre distinguere la ”storia” (ciò che viene
rappresentato) da “il discorso” (il come). Non so se Christopher Nolan conosca o
meno le formulazioni di Chatman ma una cosa è certa: sa “come” raccontare una
storia. Facendo sua la vecchia lezione di Jean Luc Godard (“In una storia c’è
sempre un inizio, un centro ed una fine ma non necessariamente in quest’ordine”)
il regista compone un film che procede, convulsamente, per salti temporali in
avanti ed indietro nel tempo. Parallelamente, utilizzando uno “sporco” bianco e
nero (che scivola, senza soluzione di continuità, nel flusso delle immagini a
colori) crea nello spettatore un senso di totale spaesamento ed estraneità. In
sintesi la trama. Leonard Shelby (Guy Pearce) è un ex assicuratore trentenne,
biondo, alto, ben vestito che ama girare in città, a bordo di una Jaguar
decappottabile. Peccato sia affetto da una perdita della memoria “a breve
termine, patologia che ha riportato (in seguito ad un trauma cranico) il giorno
in cui sua moglie è stata stuprata ed uccisa (?) da un brutale assassino.
Leonard non può assimilare nuovi ricordi (che svanirebbero nel nulla nell’arco
di qualche minuto) e per ovviare a questo “piccolo” inconveniente, ha
trasformato il suo corpo in un archivio della memoria, tatuandolo con scritte
telegrafiche, cifre ed appunti d’importanza per lui vitale. Per rendere la sua
esistenza “possibile”, Leonard usa ordine e metodo. Disciplinato ed organizzato,
gira in tasca con dei promemoria, dove appunta segnali, indicazioni, tracce e
quanto altro potrebbe servirgli per orientarlo nella giungla che è la
vita. Sua fedele compagna, inoltre, una vecchia Polaroid, con la quale stampa
foto su foto e sul cui retro annota qualche piccolo dettaglio informativo su
luoghi e persone, in cui si imbatte giorno dopo giorno. Il suo unico
scopo? Scoprire l’assassino di sua moglie ed ucciderlo. Pur brancolando nel
buio, Leonard ha una traccia da seguire: Gorge Edward G, un nome e cognome che
ha tatuato, non si sa quando sul proprio corpo. Intorno a lui una serie di
strani personaggi che sembrano usarlo solo per i loro loschi affari; la dolce e
tenebrosa Nathalie (Carrie- Anne Moss) e Todd (Joe Pantolian) un occhialuto
poliziotto, fin troppo disponibile e sorridente. Man mano che la storia
procede, si intuisce che la ricerca del protagonista potrebbe essere vana,
che i fantasmi che si agitano in lui sono (forse) solo il frutto della sua mente
malata e che (probabilmente) non arriverà mai a ricomporre un puzzle troppo
contorto ed intricato per lui. Nolan narra una storia senza speranza, dove
il protagonista è condannato a non poter ricordare il passato, a vivere il
presente ed a progettare il proprio futuro. Sarà lo stesso Leonard che, nel
corso del film, in una scena toccante, urlerà, ad alta voce a se stesso: “Come
posso morire, come posso guarire se non riesco a sentire il tempo?” e
successivamente:“La memoria può cambiare la curva di una stanza, il colore di
una macchina. I ricordi possono essere distorti, sono una nostra
interpretazione, non sono la realtà, sono irrilevanti rispetto ai fatti”.
Film atipico ed originale, al tempo fece sgranare, per la novità, gli occhi
degli spettatori ma che oggi, rivedendolo, appare un po’datato e disseminato da
troppe insidie e trabocchetti per lo spettatore. Scrittura gelida e ripetitiva a
parte, “Memento” resta ancora oggi un bel film, non fosse altro per le chiare
citazioni ad un certo cinema d’autore del passato (Leonard è un tenace
investigatore che indaga sulle richieste di polizze truccate, come il vecchio
Barton Keyes de “La fiamma del peccato” di Billy Wilder) e del presente (il
protagonista che va in giro scattando foto su foto con una Polaroid non ricorda
il Felix Winter di “Alice nelle città” di Wim Wenders?
Peccato che Nolan, al tempo,
non abbia scelto, le atmosfere cupe, oniriche e tenebrose del noir ma,
all’opposto, un’ambientazione accecante, luminosa e diurna. Il regista è,
però, bravo nell’usare alcuni trucchi di “genere” e nel far vagare lo sguardo
dello spettatore, ponendolo in un altrove dove spazio e tempo si allungano e si
restringono a dismisura. Come Leonard, chi è in sala, va (inutilmente) alla
ricerca di traiettorie visive e di tracce mnemoniche che risultano essere, nel
corso della visione del film, effimere e sbagliate. Un altro innegabile pregio
del film resta quello di aver proposto una storia lancinante e dolorosa, sugli
irreparabili guasti che un difetto nella memoria può provocare ad un uomo. Senza
memoria non c’è identità, sembra essere la sconsolata epigrafe del film. Ma al
di là della triste vicenda del protagonista, resteranno, certamente, impresse
nella memoria dello spettatore, due cose: le straordinarie immagini del corpo
tatuato di Leonard (“I racconti del cuscino” di Peter Greenway, docet) ma,
soprattutto, la toccante e commovente storia dei coniugi Jenkins. Da una
sceneggiatura di Jonathan, fratello del regista. A proposito di memoria…Ma la
storia del protagonista che perde la memoria e che scrive tutto su dei pezzetti
di carta, non vi fa venire in mente l’epidemia che colpì gli abitanti di
Macondo, descritta da Gabriel Garcia Marquez in “Cent’anni di solitudine”?
Forse, chissà, chi se lo ricorda…
Recensione pubblicata sulla Rivista "Eidos-
Cinema, Psiche ed arti visive" – N 4