Maternity blues

 

Clara (Andrea Osvart), Eloise (Monica Birladeanu), Rina (Chiara Martegiani) e Vincenza (Marina Pennafina), seppur diverse caratterialmente tra loro, sono accomunate tutte dallo stesso destino; si sono macchiate dell’infamante colpa di aver ucciso i loro figli e  sono recluse in un ospedale psichiatrico giudiziario. Nel corso della narrazione emergono le loro inquietudini, gli insostenibili sensi di colpa, le problematiche storie personali, i laceranti conflitti familiari.

Fabrizio Cattani traduce sul grande schermo la piéce teatrale ”From Medea” di Grazia Verasani, un testo ispirato alle vicende di alcune recluse dell’OPG di Castiglione dello Stiviere. Disertato il melodramma ed il film di denuncia sociale, il regista sceglie una narrazione senza enfasi che mette a nudo l’anima di chi, dopo aver commesso l’infanticidio, ha spedito la propria anima all’Inferno. Con pochi tratti descrive Clara, una donna bella ed elegante, che  aveva annegato i suoi due bambini in un fiume perché incapace di tollerare la solitudine e l’oceanica tristezza che le derivava dall’aver sposato Luigi (Daniele Pecci), un uomo che, per motivi di lavoro, non era mai in casa. Vincenza, dal suo canto, moglie di un alcolizzato, dopo essere crollata psicologicamente, in uno stato di trance, aveva ucciso il neonato che aveva da poco partorito, mettendolo insieme ad i panni sporchi in una lavatrice. A fare da contro-altare ad Eloise, donna dura ed emancipata, la tenera e disarmante Rina, una sognatrice incapace di sentirsi adulta dopo essere rimasta incinta a sedici anni. Nel corso della vicenda compare il dottor Scalia (Pascal Zullino), direttore della struttura, che regala allo spettatore alcune riflessioni che illustrano le motivazioni che spinge una madre a compiere un delitto così atroce. Cattani non giudica, non condanna, lascia completamente fuori campo le scene degli infanticidi e, solo sul finale, mostra fugacemente  quelli compiuti da Clara e Vincenza. Tra le righe il regista lascia intendere che è fin troppo semplicistico pensare che l’infanticidio sia il gesto di una donna crudele, disamorata e priva di istinto materno ma va che questo insano delitto va inscritto in un contesto più ampio che vede, nella maggioranza dei casi, madri sole, disperate ed abbandonate dai mariti al loro destino. L’OPG non è descritto come un luogo claustrofobico, i cui tempi sono scanditi da secondini o da guardie carcerarie, ma come uno spazio familiare ed accogliente dove le quattro protagoniste possono dormire insieme in una grande stanzone, accudite da materne infermiere. Banditi psicofarmaci e qualsiasi provvedimento restrittivo, le recluse sono impegnate in attività occupazionali (cucina, lavanderia…) e si sottopongono a delle sedute di terapia di gruppo.

 

 

 

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