Giuseppe D'Antonio

 

"La prima traccia per un possibile discorso sul tuo libro parte della presentazione di Gianni Canova  che, mi ricorda, molto stranamente un testo di Calvino per presentare "Tutti i film" di Fellini...Anche Calvino parla dell'idea di un cinema che abbia la possibilità di lenire le ferite della vita, le ferite che sulla vita lascia il tempo... Sappiamo che tutta l'arte della riproduzione hanno al fondo di se, come il tentativo di sospendere, di lenire, di ricompattare le ombre della vita che fuggono, i sensi del tempo che si frantumano da noi...C'è questa figura in qualche modo dominante e che riguarda la ceramica, la pittura ... che è la figura della nostalgia, la capacità in qualche modo nella riproduzione dello oggetto di trattenerlo presso di noi perché non sfugga. E questa era anche l'idea di Bazin quando scriveva "Che cos'è il cinema", cioè "riuscire, in qualche modo, a trattenere, a vincere la morte  attraverso l'immagine e pur tuttavia, lasciando che questa immagine, come dire, avesse una sua vita, una sua esistenza, nel tempo del racconto cinematografico". Ed un altro autore francese diceva che il cinema é "la morte al lavoro"...E la possibilità di poter trattenere le figure della morte e, in qualche modo, di respingerla attraverso il tempo che si ripresenta, attraverso la possibilità di rivedere, attraverso la possibilità di fermare l'immagine o l'illusione dell'immagine che può fermare il tempo, ci mette in contatto con un bellissimo film di Truffaut che è "La camera verde" che mi sembra sia la sua riflessione su quello che il cinema può essere...Un altro elemento che mi sembra fondamentale per il cinema, credo sia la "sala cinematografica" perché é un luogo di celebrazione, in qualche modo singolare... Perché è una prossimità senza conoscenza, è una comunità senza comunione, se non nel momento in cui il fascio di luce colpisce lo schermo e noi, che non ci conosciamo, non sappiamo chi siamo, siamo sospesi nello stesso tempo del racconto e, in qualche modo, costretti a confrontarci, pur ignorando l'uno dell'altro, con le stesse dinamiche di emozioni e di esperienze che quella storia ci sta raccontando. E questo, ovviamente, accade solo nella sala buia...Però c'è il buio e c'è il vuoto...L'atto iniziale del cinema sta lì e quel momento di sospensione è irriducibile ed impossibile da eliminare...Non solo come diceva Sorlin, c'è questo vuoto e questa attesa iniziale ma, quando comincia un film, solitamente parte dal buio, parte dal nero; é raro trovare il caso in cui c'è immediatamente luce...e questo mi fa pensare al grosso intreccio fra cinema e psicoanalisi...Truffaut diceva che: "La vita é un'esperienza della sottrazione, il cinema è un'esperienza dell'addizione... La vita è qualcosa che scende, il cinema è qualcosa che sale..." Secondo Truffaut, la vita é qualcosa che scende (perché i ritmi in qualche modo vanno lentamente diminuendo, le pulsioni esistenziali si assottigliano)  mentre il cinema sale, tende in qualche modo ad una celebrazione epifenomenica, fino al punto  della conclusione. Non so se hai notato che, alla conclusione del film, c'é l'abitudine del fermo immagine, dello stop di fotogramma... In moltissimi film si utilizza questo vezzo e sull'ultima immagine bloccata scorrono i titoli di coda. Quasi che, con questo stop di fotogramma, si avesse la sensazione che il racconto finisse qui...C'è un divenire di vita oltre questo frammento, ma la storia, la dimensione di narrazione che siete venuti a celebrare in questa sala, si interrompe, c'è un tempo che è stato in qualche modo completato, finito... Questo "tempo" che siamo andati a condividere nella sala con altri è un tempo della sospensione del tempo progettante. Noi abbiamo investito con un atto fiduciario colui che ci veniva a raccontare una storia ( per questo quando i film non ci piacciono noi siamo molti arrabbiati) e noi abbiamo sospeso il nostro tempo e abbiamo goduto, come la definisce il filosofo Guido Fink, di una meravigliosa oasi del tempo, che lui definisce "l'oasi della gioia": "Un luogo in cui, sospese tutte le tensioni e sospesi tutti i meccanismi costruiti sull'attesa e sul progetto, si possa godere del presente senza limitazioni e si possa raccogliere di questo presente l'esperienza curativa del ricomporsi con se stessi, con il proprio tempo interiore."  Dopo aver letto il tuo libro, ricco di sterminate citazioni, (ti confesso che, pur essendo  uno che fa cinema da venti anni, mi sono  un po' vergognato, perché tu sei andato a cercare, con percorsi di scavo sotterraneo, film che solo dopo averli letti, mi rendevo conto che erano riferimenti assolutamente precisi) vorrei farti un'osservazione che mi incuriosiva molto. Nel tuo lavoro c'è una "patologia"... non so se è la forma di amore estremo per il cinema o come tutti gli amori estremi è una sorta di tradimento. Questo rimanda, naturalmente, al concetto di "cinefilia"...che è questa passione sterminata per il proprio oggetto, fino al punto di nutrirsene al limite dell'ossessione, della saturazione totale della memoria, anzi con la paura che la memoria non possa contenere tutte le immagini possibili, che c'è sempre una parte della nostra memoria che fa decadere l'oggetto per cui noi siamo costantemente in attesa di poter catalogare, sistemare, dare un senso, una sorta di cineteca ideale come la biblioteca di Babele, questo mi sembrava in qualche modo un'ossessione, una gioiosa ossessione...Infatti, tu usi solitamente "Mi veniva improvvisamente in mente", ed i film affiorano come una sorta di memoria proustiana...La domanda che volevo farti é la cinefilia é un amore estremo per il cinema o è una degenerazione del concetto d'amore? Non c'è il pericolo di un'ossessione che finirà, inevitabilmente, disillusa perché, come diceva Valery: "La carne è debole ed, ahimè, io ho letto tutti i libri."  Si, la carne è debole e c'è proprio un'incapacità nostra di poter raccogliere tutto e di poter conservare tutto. La memoria è selettiva, la memoria ha bisogno di vivere i propri lutti e di abbandonare le proprie ossessioni e perderle. Nessuna cineteca ideale può contenere tutto il cinema, non lo potrà fare e non è neanche giusto che lo faccia...Poi un'ultima annotazione. Mi sembra che nel tuo testo c'è una presenza fortissima della dimensione narrativa e degli elementi delle sceneggiature, riproposte con grande attenzione e con grande precisione, ma mi sembra che ci sia una sorta di sottovalutazione della dimensione forte del lavoro sulle architetture delle immagini e sul valore che può avere anche dal punto di vista di riflessione sulla psicoanalisi. A volte lo stile narrativo, lo stile iconografico, la scelta di angoli di ripresa, la scelta di forme di montaggio, la scelta di un certo tipo di colore, di ambientazione, di atmosfere che si costruiscono con il dosaggio delle forme espressive quali la pittura, della scenografia, quello è un territorio un po' sacrificato nel tuo testo, un territorio di smisurata potenzialità ed una ricostruzione di una storia dell'immagine, con una valenza o con un carico di lettura di variante psicoanalitica, credo non sia stata mai tentata...  

Linea d'ombra- Salerno Film Festival"

Salerno, 21.3.2002

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