"Conversazione con Giuseppe Piccioni"

   di Ignazio Senatore

 Falsopiano Edizioni - 2012

LE PRIME 5 PAGINE

 

INTERVISTA  

IS: Sei nato ad Ascoli Piceno, città cinematograficamente nota perché Pietro Germi vi girò nel 1972 Alfredo,Alfredo, uno dei suoi piccoli capolavori. Allora avevi diciannove anni. Eri lì, hai vissuto la lavorazione del film?

GP: Mi è capitato spesso di incrociare la troupe. Quello che mi colpiva era  questo grande assembramento di persone e di mezzi intorno ad un evento che non riuscivo a decifrare, perché nascosto agli occhi dei passanti. Avevi la sensazione che, oltre il muro di aiuto registi, maestranze, addetti della produzione, accadesse qualcosa di misterioso e di eccitante. Curiosando qua e là qualche volta scorgevi in un passaggio fugace, Dustin Hoffman o la Sandrelli, che venivano portati sul luogo delle riprese, protetti da un seguito di persone. Ricordo che si diceva che Hoffman fosse molto gentile e disponibile, che frequentasse le case di alcuni miei concittadini ma io non avevo il privilegio di far parte di quella cerchia di persone.

IS: Perché lo girò ad Ascoli Piceno?

RP: Non so dirtelo perché. C’era qualche frequentazione della zona. Non mi ricordo se Alfredo, Alfredo fu prima o dopo Serafino che fu girato nelle vicinanze.

IS: Serafino é del 1968

GP: Tieni conto che prima di Germi ci fu Maselli con I delfini

 IS: Un film straordinario con Claudia Cardinale e Tomas Milian…

GP: Lì c’erano i caffè, la città da sfondo, riconoscibile. Un film ambientato in gran parte nel Caffè Meletti, questo caffè liberty dei primi del Novecento che insieme alla piazza è uno dei motivi di orgoglio dei miei concittadini.   

IS: Questi film hanno arricchito il tuo immaginario e spinto a fare il regista?

GP: Incuriosito… Il mio immaginario si è formato in maniera piuttosto frammentaria, non del tutto consapevole. Io non vengo da una famiglia dove poteva essere naturale che nascesse un regista. La mia famiglia è di origine piuttosto semplici, con i classici genitori che facevano molti sacrifici per far studiare i figli  e che mettevano al primo posto appunto lo studio, come momento fondamentale dell’educazione. Io sono l’ultimo di quattro fratelli (tre fratelli e una sorella) e forse, essendo l’ultimo, ho avuto contemporaneamente, insieme a un certo grado di protezione, la possibilità di schivare le aspettative eccessive che, per esempio erano tutte a carico del fratello maggiore. Insomma godevo di una certa libertà ed il fatto di avere dei fratelli maggiori costituiva  una specie di cerniera di trasmissione di esperienze, ma anche di gusti musicali: dalle canzoni degli Anni Cinquanta (Neil Sedaka, Paul Anka) alla musica della mia generazione (i Beatles, il rock degli Anni Settanta..). Il cinema è entrato in me con forza, più come spettatore televisivo, nei cicli del lunedì sera, piuttosto che sul grande schermo…Si trattava di cicli di film su grandissimi autori ed erano presentati da Rondi, Vieri Razzini, Claudio G. FavaMi ricordo un ciclo di film classici del muto, film dell’orrore: “Quando il cinema non sapeva parlare”. Io ero piccolo, li guardavo terrorizzato. Non ero un bambino che andava a letto dopo Carosello, nella mia famiglia non c’era quella disciplina così ferrea…Poi scoprii più tardi che quei film non erano semplici film dell’orrore (Nosferatu di Murnau, Il dottor Jekill e Mr Hyde di Rouben Mamoulian) e ne rimasi impressionato, spaventato, suggestionato. Capisci cos’era la televisione allora?  Mi ricordo di aver visto Il Settimo Sigillo e, sebbene non ci avessi capito granché, ero totalmente soggiogato dal fascino di quelle immagini; la partita a scacchi con la morte, il volto di Max Von Sidow…  Queste esperienze valevano di più del cinema della domenica, che era tuttavia presente nella mia vita. Mi ricordo quella sensazione di aver perso un pezzo di storia della mia generazione perché mi ammalai e non riuscì a vedere Ben Hur che mi sembrava bellissimo già solo dall’album delle figurine che fecero in occasione del lancio del film. Quell’album lo avevo completato e non ero riuscito a vedere il film.

IS:  Non sapevo questa storia delle figurine…

GP: Erano bellissime. C’era, ad esempio, tutta la corsa delle bighe. Quelle foto erano talmente evocative che la sequenza vera e propria del film fu per me quasi una delusione. E’ stato con la televisione, grazie appunto ai miei fratelli maggiori, che ho cominciato ad avere familiarità con questi strani nomi che sentivo pronunciare da loro. Nomi suggestivi,  nomi misteriosi:Robert Mitchum, Montgomery Clift, Richard Widmark, Rita Hayworth…. Io sono nato come spettatore di cinema attraverso la televisione, lo ripeto, grazie ai miei fratelli maggiori.

IS: Quanti anni avevano più di te?

GP: Il più grande ne aveva otto, l’altro sei…Il primo era l’appassionato di cinema mentre dall’altro ho ereditato la passione per i primi gruppi di musica beat, le chitarre elettriche, è lui che portò in casa il primo LP dei Beatles, “HELP”. Mia sorella aveva solo due anni più di me, con lei passavo la maggior parte del mio tempo. Quell’ondata di canzoni, film, riviste giovanili, fumetti eccitavano la fantasia di noi adolescenti. Erano il nostro pane quotidiano, la spinta verso un mondo diverso da quello della generazione dei nostri genitori. Si incominciavano a incrinare i miti della carriera, di un avvenire fatto solo di denaro, famiglia, lavoro. I primi inquietanti interrogativi sull’esistenza di Dio…

 IS: Poi lo vedesti Ben Hur?

GP:  L’ho visto da grande. Sono quegli appuntamenti mancati che recuperi molto, molto avanti. Un po’ deludente…

 IS: Ma la corsa delle bighe…

GP: Quello era tutto il nucleo del film, la violenza, la morte…Nel cinema di quegli anni quando vedevi i trailer, quello che ti colpiva era sempre una scena dove c’era qualcosa di raccapricciante, un braccio mutilato, una decapitazione…Il cinema conteneva questa specie di odore di zolfo e di sangue, suscitava emozioni primordiali, stupore… 

IS: Eppure nei tuoi film non muore quasi mai nessuno o più precisamente non vediamo mai la morte…

GP: Nei miei film muoiono Razzo nel Grande Blek e Giulia, in Giulia non esce la sera. Eppure sono sempre stato attratto ed impressionato da certe sequenze. Non era sufficiente dire a me stesso: “E’ solo un film...” Una delle morti più incredibili è quella di Marlon Brando ne Gli ammutinati del Bounty…E’ trascinato fuori dall’incendio, i suoi compagni hanno appiccato il fuoco alla nave e non possono più andar via da quell’isola, e lui, tremante, fa quel discorso… Tutti lo guardano con un’espressione pietosa e capisci che è agli sgoccioli e non c’è più niente da fare e pensi: “Mo’ muore, mo’ muore, sta morendo”.

Ci sono altre immagini nella mia memoria: Il testamento del mostro di Jean Renoir, una specie di remake de Il dottor Jekill e Mr Hyde…Il giorno dopo a scuola tutti imitavamo Monsieur Opale che ne combinava di tutti i colori; toglieva il bastone al vecchio e con quello lo picchiava con ferocia…  Camminavamo tutti come lui, imitavamo la sua andatura strana, dinoccolata. Una grandissima interpretazione di Jean Louis Barrault. Questi film classici, quandanche noiosi, come poteva essere noioso vedere I sette samurai, oppure  certi film d’avventura, lasciavano sempre un segno … Devo riconoscere che, stranamente, crescendo, ho messo da parte il piacere che avevo per il cinema d’avventura. I titoli di testa di un film western erano una promessa di eccitazione e di piacere e l’ingenuità di quello sguardo è stata irripetibile negli anni successivi. I western erano davvero qualcosa di elettrizzante: gli indiani…

IS: Era un cinema che liberava l’immaginario…

GP: Si..Spero, andando avanti negli anni, di ritrovare da qualche parte quel piacere primitivo. Penso che nel nostro cinema un po’manchi quella possibilità…Pensa a Cocteau che fa La bella e la bestia… S’affida a qualcosa che ha un carattere apparentemente popolare, anche se raffinato, però insiste su un elemento forte del codice del cinema fantasy. Quel piacere lì, mi piacerebbe sviluppare...

IS: Un risveglio dell’Io infantile…

GP: Si. .ultimamente sono stato molto colpito da un film Lasciami entrare, quel film svedese… 

IS: Su quella bambina che è una vampira con gli occhioni spiritati. Un horror freddo e silenzioso.

GP: Penso poi a certi film del realismo poetico francese, visti anche quelli grazie a mio fratello, interpretati da Jean Gabin e pensavi a quest’uomo dallo sguardo malinconico e tuttavia forte, un perdente affascinante, che non si corrompe. Un uomo che aveva il coraggio di andare incontro al suo destino, che parlava e si muoveva in modo essenziale, senza retorica o narcisismo. Senza mai perdere in dignità.

 IS: L’opposto dei personaggi un po’ meschini ed imbroglioni  presenti nella commedia all’italiana…

GP: Si. Io prediligevo un cinema dove non c’è il piccolo eroe meschino, sempre sconfitto dalle circostanze, sempre un po’ patetico....

 IS: Personaggi come Jean Gabin per un ragazzino erano dei modelli d’identificazione molto forti…

GP: Noi abbiamo vissuto un periodo in cui, metabolizzavi i vizi degli attori italiani che hanno dominato la scena e che hanno riempito il nostro immaginario. I loro modi di dire facevano parte di un sentire comune che irrompeva immediatamente nella tua vita e, nel bene e nel male, diventavi complice di quei comportamenti, fino ad assolverli. Però bisogna anche dire che la televisione era anche un luogo, negli spettacoli del sabato sera, dove questi attori difficilmente perdevano la faccia, cosa che adesso succede molto di frequente. Allora vedevi Mastroianni che andava a Studio Uno ed avevi la sensazione che anche lì ci fosse una promessa di spettacolo, che non saresti rimasto deluso.

IS: Andava Totò…

GP: Vedevi Alberto Sordi, lo stesso De Sica che cantava e non avevi la sensazione che potesse rendersi ridicolo. Mastroianni lavorava con Visconti e con Fellini ma non è che quando andava in televisione non facesse spettacolo. In generale, nonostante le censure di quella televisione, il pubblico era  rispettato molto di più di quanto accada oggi. Mia madre, che era una donna semplice, si fermava a vedere in televisione I Miserabili oppure I Fratelli Karamazov, con le lentezze di Anton Giulio Majano, con quei grandissimi attori...

IS: Umberto Orsini, Salvo Randone, Tino Buazzelli, Valentina Cortese, Rossella Falk…

GP: Tino Carraro, Lea Massari…Alla fine mia madre si alzava dalla sua sedia in fondo alla stanza e diceva: “Che bel lavoro...”

IS: Una televisione che ti nutriva ancora….

GP: Certo era una televisione piena di contraddizioni, era quella di Bernabei ma anche felicemente divulgativa..C’è qualcosa che mi fa sentire fortunato di essere vissuto in quell’età dell’oro del cinema e della televisione.

IS: Hai fatto il pieno di cinema con la televisione e ti sei laureato in Sociologia ad Urbino. Volevi prenderti il “pezzo di carta”o già allora pensavi di  fare il regista?

GP: No, avevo qualche velleità ma questa spinta dentro di me era sempre piuttosto clandestina. Ci sono degli amici che mi raccontano che avevo già intenzione, che avevo già manifestato…A me non sembra sia andata così. La sensazione che avevo era quella, anche un po’ velleitaria, di cercare qualcosa che mi facesse sfuggire dal destino di una vita “normale”. Dico velleitaria perché era condivisa da quelli della mia generazione, quello che contava era l’espressione di sé, non certo la carriera. Per alcuni ha avuto effetti devastanti; l’incapacità di adattamento, di stare al passo con la realtà… Molti si sono perduti, in maniera anche drammatica. Provammo a quei tempi a fare un gruppo musicale, come molti, poi ci fu la politica, sempre alla ricerca di qualcosa che ci salvasse. Quando andò in crisi il modello “politico”, e quindi la convinzione di poter cambiare il mondo attraverso l’attività  politica, il cinema fu una scoperta, una visione del mondo, un po’ come uno scopre la religione cattolica o  il rock and roll, qualcosa in grado di mostrarti un orizzonte più ampio. La sensazione era che quella cosa ti riguardasse da vicino, come un richiamo. E poi la scoperta del cinema indipendente americano  Quel pomeriggio di un giorno da cani, Il laureatoIl laureato è un film sconvolgente; nessun “autore” lo cita tra i suoi film preferiti, tutti lo sottovalutano, forse perché ebbe un grande successo commerciale. Ma quel film sembra girato oggi e Mike Nichols è stato uno dei più grandi talenti di quegli anni. Mi piacque moltissimo Jack Nicholson in Conoscenza carnale. Erano grandi film, diretti da grandi registi che, pur non essendo italiani, riuscivano a raccontarti qualcosa che riguardava la tua vita, il tuo mondo, i tuoi problemi con la famiglia o con le ragazze. Ti dicevano qualcosa di più di quello che potevano dirti i film italiani di quegli anni. Oltretutto la commedia italiana viveva il suo momento di declino. Gli attori di quegli anni; De Niro, Pacino…La conversazione di Coppola. Come spettatore ho vissuto anche periodi in cui sono stato uno spettatore medio, nel senso che non snobbavo l’intrattenimento puro, la serie dei Trinità…e tutti il western italiani. Con un gruppo di amici  avevamo sviluppato una predilezione un po’ elitaria, intellettualistica, verso i film “peggiori”; andavamo a vedere tutti i film giapponesi di Kung-fu, i Godzilla, ma anche tutti film di Franco e Ciccio, i film di fantascienza giapponesi e tutti film della Hammer, quelli dell’orrore. Difendevamo quei film contro tutto e tutti, non facevamo che citarli, prenderli a modello a volte anche contro il cinema d’autore, quello ufficiale....

 

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