Strettamente privè

 

 

C’è chi afferma che gli “scambisti” affondano le loro radici culturali nelle comuni hippy che fiorirono in America verso la fine degli Anni Sessanta. Figli di Herbert Marcuse (e non solo) quei giovani scandalizzarono i benpensanti del tempo gridando ai quattro venti che assumevano droghe e che praticavano il “libero amore”. In realtà sappiamo tutti che dietro il mitico slogan di facciata “sesso, droga e rockn’roll“ c’era dell’altro. I “figli dei fiori” nel contestare duramente la società borghese e l’istituzione familiare, tentarono “romanticamente” di sperimentare un nuovo tipo di aggregazione sociale e relazionale. “Alice’s restaurant” di Arthur Penn (1969) e “Zabriskie point” di Michelangelo Antonioni del 1970 furono (forse) i film che meglio di altri diedero voce a quel movimento che durò non più di un decennio. Gli “scambisti”, questi nuovi ambasciatori dell’amore, nati sul finire del secondo millennio, rispetto ai loro “predecessori”non hanno, invece, alcuna velleità di cambiare la società in cui vivono. Dopo essersi autoproclamatisi “coppia aperta”, questi nuovi adoranti del sesso cercano di arricchire il loro (ormai spento?) immaginario sessuale recandosi in uno dei tanti club privè di “scambisti” che affollano la nostra penisola. Rimossi i sensi di colpa ed i moti di gelosia, gli “scambisti” barattano il proprio partner con quello di un’altra coppia. Terminati i frizzi e i lazzi le due coppie se ne ritornano a casa felici e contenti. Commenti? Innanzitutto l’espressione “coppia aperta” più che ad un senso di libertà mi rimanda immediatamente a qualcosa di opposto, al “claustrum”, al chiuso entro la quale questa coppia si dibatte al proprio interno. Consapevoli del proprio inaridimento emotivo ed affettivo, mi sembra che questi “scambisti” rincorrino la convinzione illusoria che l’incontro sessuale con un altro partner possa rivitalizzare un rapporto ormai irrimediabilmente inaridito.  Il temine “scambista”, inoltre, mi porta ad associare, in maniera automatica, ad un “baratto” che avviene tra merci e non tra persone. Abbandonate queste considerazioni di ordine generale, occorre fare un salto indietro ed analizzare la struttura architettonica di un privè. Generalmente il club prevede diversi ambienti, tutti rigorosamente poco illuminati. Tra questi una sala-discoteca, un bar, varie stanzette con siparietti e alcove di ogni genere, un locale con proiezione di filmati porno ed un grande salone tappezzato di divani. Questo ultimo spazio è il vero centro pulsante del club perché è lì che le coppie esibiscono le loro prestazioni amorose, noncuranti degli occhi “indiscreti” degli altri ospiti del locale. C’è, infine, un altro luogo strategico, denominato “dark-room” dove i soci più disinibiti, celati dalle tenebre, possono dar sfogo alle loro più eclettiche “performance” amorose. E se possiamo ipotizzare che il “salone delle feste” possa essere il regno ideale degli incalliti voyeur ed esibizionisti, la dark-room ci induce a pensare cha sia la preferita dagli individui con spiccate tendenze sado-maso. Se ciò fosse vero vorrebbe dire che questi privè non sarebbero né i luoghi del desiderante, né tantomeno le sedi dove regnano il gioco e la seduzione. Le vere regine di queste alcove dell’amore mi sembra siano soprattutto delle irrisolte problematiche personali e di coppia. Un’ultima mistificazione che mi sembra correlata questi privè è l’illusione che la mente dei soggetti sia un interruttore che si possa spegnere ed accendere a proprio piacimento e che una volta usciti dal club, nulla resti nell’inconscio e nella traccia mestica dello “scambista”. Se Sigmund Freud, il grande maestro viennese lo venisse a sapere, si rivolterebbe nella tomba.

 

La Voce della Campania" - Numero 7- Luglio 2004

 

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