Cinema e cancro

 

Raccontare la malattia è spesso molto faticoso. Il cinema si prende i suoi tempi e procede con i piedi di piombo. Non sono tanti i titoli che ritornano alla memoria e che spesso scadono nel patetismo e nel pietismo, rendendo le storie melense e poco realistiche. Ignazio Senatore che di mestiere fa lo psichiatra terapeuta, ha nel suo curriculum numerose incursioni letterarie nella celluloide che parla di malattia nel senso più ampio del termine. Con lui proviamo a cercare le ragioni di una narrazione del cancro e del perché viene trattata con pudore da moltissimi cineasti.

«Faccio una premessa. Guardare la morte in faccia al cinema è sempre traumatico, per cui è lasciata spesso fuoricampo dai registi. Tranne alcuni casi come “Nick's  movie”, dove Nicholas Ray è filmato fino all'esalazione dell'ultimo respiro, oppure nel film "Scelta d'amore" ("Dyning young"- "Il giovane morente") il regista mostra gli effetti collaterali dei farmaci chemioterapici, riprendendo il protagonista mentre vomita, trema, suda e si contorce dal dolore».

 

È cambiato il modo di rappresentare il cancro nel cinema?

«Il cinema ha trattato tutte le malattie. Fino agli anni ‘60 non ci sono però film sull'argomento. Naturalmente il melodramma è il genere che ha solcato di più la tematica, uno su tutti: “Love story”. In generale nel cinema il tumore maligno viene visto come un incidente da cui ripartire per imparare a vivere meglio, una sorta di rinascita».

 

C'è un motivo per cui il cinema fatica a raccontarlo?

«Il cancro è un tema che riguarda più o meno tutti. Chi non ha avuto un parente o un conoscente malato di cancro?  Il cinema, che è comunque finzione, declina con grande pudore.  Anche commercialmente è un tema che se affrontato troppo schiettamente rischia di lasciare le sale vuote. Le altre malattie se rappresentate ci aprono meno incognite».

 

In che senso?

«Prendiamo l'Aids. Ci tiene a distanza: se non ho rapporti occasionali non protetti, se non sono tossicodipendente, non ho paura di ammalarmi. Anche l'alcolismo o la tossicodipendenza in generale: smetti di bere o di assumere stupefacenti e sullo schermo ci può essere una rappresentazione di rinascita o perdizione completa, ma che in ogni caso presuppone una scelta del protagonista. Nel cancro che scelta hai? Non puoi certo dire: “adesso la smetterò col far crescere le cellule maligne”. Sei impotente, è questo spaventa tantissimo. Il cancro è una malattia molto democratica».

 

E la parola cancro viene spesso declinata con eufemismi...

«“Ha avuto quella brutta malattia” si dice a Napoli, è il pensiero magico che si desta e così rischia sempre di attirare il male. Per rimanere in ambito cinematografico Woody Allen dice: “Le più belle parole non sono "ti Amo", ma "è Benigno"».

 

Ci sono dei titoli che secondo lei entrano meglio nel problema?

«Penso a “Corpi impazienti” di Xavier Giannoli, con la protagonista che sfiorisce e viene sostituita dal partner negli affetti da una ragazza più giovane e vitale, oppure all'opposto “La mia vita senza me” di Isabel Coixet in cui una donna e madre riscatta una vita opaca, preparando un'esistenza migliore per quelli che resteranno: suo marito e le sue due figlie».

 

“Quelli che rimangono” sono spesso al margine della narrazione…

«Spesso le narrazioni di malattie mortali finiscono con la morte del protagonista e il cinema non fa eccezione, come se il bagaglio emotivo attraverso la dipartita scomparisse. In “La voce dell'amore” si vede la famiglia che si spacca: il padre si disinteressa, la figlia rinuncia alla carriera per  seguire la madre e avrà un duro scontro con lui. Tutto molto melò».

 

A cura di Emanuele Policante

 

da La nuova Provincia di Biella inserto Paginatr3  del 14/1/2012

 

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