Belle Toujiours: Sheherazade, la tessitrice di remake

 

"Le storie esistono solo nelle storie mentre la vita scorre nel corso del tempo." (Wim Wenders)

 Non mancherà molto e leggeremo di Cappuccetto Rosso che, superate le turbolenze adolescenziali, frequenta l’università e sogna di fare l’attrice. Ci imbatteremo, poi, in un dipinto della Gioconda, ritratta come se avesse cento anni e ascolteremo, distesi e beati, sul divano di casa, la Decima Sinfonia di Beethoven. Responsabile di questa svolta epocale é Manoel de Oliveira che, ridando idealmente vita, dopo quasi 40 anni a Bella di giorno, di Luis Buñuel, ha aperto la strada a tutte le più (im)possibili rivisitazioni. Nessuno pensa di recintare la fantasia e la libertà di un artista, ma è corretto, da un punto di vista etico, proporre il seguito di una pellicola altrui? Nessuno si è mai scandalizzato che un tema come “Il martirio di San Sebastiano” sia stato raffigurato da Rubens, Mantenga e dal Pollaiolo e il cinema, fedele a questa tradizione, più di ogni altra disciplina artistica si è nutrito, da sempre, di sequel e di remake.

“Io non copio, rubo” affermava con la sua solita corsara e ironica sfrontatezza Pablo Picasso. Se è vero, come diceva Milan Kundera che “tutte le opere in sé hanno una parte di non compiuto” perché allora meravigliarsi se Manoel de Oliveira fa incontrare nuovamente Henry e Séverine? Mentre scorrevano le immagini del film, qualcosa mi trasportava altrove. Una riflessione di Michelangelo Antonioni soprattutto: “Mi domando se sia giusto dare sempre un finale ai racconti, letterari teatrali o cinematografici che siano. Una volta chiusa in un suo alveo una storia rischia di morirvi dentro, se non le si dà un'altra dimensione, se non si lascia che il suo tempo si prolunghi in quello esterno dove siamo noi, protagonisti di tutte le storie“. Con il suo Belle toujiours de Oliveira si era, dunque, spinto oltre. Colmando quello spazio immaginario lasciato aperto dalla pellicola di Buñuel, non stava (forse) contaminando (irrimediabilmente?) la memoria dello spettatore? Séverine, allora, non era fuggita con nessuno dei suoi amanti, Pierre non l’aveva lasciata per un’altra donna, Henry aveva rinunciato, in tutti quegli anni, a corteggiarla? Queste e altre infinite supposizioni si sbriciolavano, a una a una nella mia mente, fino a diventare polvere.

Jean-Luc Godard, un tempo, affermava: “Qualche volta simulare la morte è il mezzo più facile per finire il film, così gli spettatori sono sicuri che è finito il film”. Ma il punto è proprio questo; quando finisce un film? Un tempo, un film si chiudeva con la fatidica scritta “The end” e c’è chi crede, ancora, che termini alla fine della proiezione della pellicola. Italo Calvino fa riferimento, invece, a un certo “cinema mentale” che continua a scorrere, incessantemente, nella mente dello spettatore e che non ha mai termine. Io sposo la sua tesi e Séverine ed Henry, in tutti questi anni, hanno continuato a far capolino nelle stanze della mia mente. È mia opinione che se ci fosse una divinità protettrice degli psicoterapeuti, questa non potrebbe che essere Sheherazade, la protagonista del racconto "La tessitrice delle notti" de Le Mille e una Notte che, per non morire, è costretta a raccontare ogni notte una storia al suo sposo, come appunto i terapeuti ai loro pazienti. Ma a ben vedere ogni spettatore cinematografico è afflitto dalla stessa inguaribile sindrome e, inghiottito dal buio della sala, rannicchiato nella poltrona, travolto dal flusso delle immagini, non desidera altro che regredire e ascoltare una storia. Il cinema è come una fiaba, un balsamo magico che lenisce ogni ferita dello spettatore. Non importa se la storia sia inventata di sana pianta, se sia vecchia o nuova; l’importante è che sia sospesa, ricca di silenzi e di melanconica dolcezza come quella raccontata da de Oliveira.

 

Recensione pubblicata sulla Rivista Segno Cinema N. 142 - 2006

  

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