“Roberto Faenza Uno scomodo regista”

di Ignazio Senatore - Falsopiano Edizioni - 2011

 

LE PRIME 5 PAGINE

 

 

Intervista a Roberto Faenza

 

IS: Ripercorriamo insieme i tuoi primi passi nel mondo del cinema…Vieni a Roma fai il Centro Sperimentale…

RF: Lo ricordo come un periodo un po’ grottesco. Il Centro avrebbe dovuto essere una scuola con relativo carico di insegnanti, ma la disorganizzazione regnava sovrana. Pochissimi i docenti e quei pochi per lo più assenteisti. Diciamo che noi allievi eravamo lasciati soli. L’unica cosa che funzionava era la Cineteca e dunque il tempo veniva assorbito dalle proiezioni di film. Ovviamente del passato. I film del presente li vedevamo al cinema per conto nostro.

 

IS: Ricordi qualche collega di corso?

RF: Vittorio Melloni che poi si diede al teatro e morì tragicamente assassinato in circostanze mai chiarite. Stefano Silvestrini, che diventò poi un documentarista. Loro due erano i miei compagni di corso (allora gli allievi registi erano 3 per anno). Poi c’erano gli allievi uscenti del corso precedente. Vittorio Saltini, che scelse la strada della letteratura (già allora scriveva su L’Espresso). Franco Brocani che diventò un regista “alternativo” negli anni Settanta. Carlo Morandi, considerato una specie di genio incompreso, di cui non ho più saputo nulla.

 

IS: Hai iniziato con due cortometraggi

RF: Il primo corto l’ho scritto e diretto nel ‘65, appena uscito dal Centro, quando avevo ventitre anni. Era un cortometraggio su dei giovani della Torino bene che d’estate in vacanza giocavano a fare la guerra. Stavo al mare (Finale Ligure dove mio nonno possedeva un albergo)  e c’erano questi diciottenni un po’ di destra che si esercitavano a simulare azioni di guerra. Dicevano di farlo per gioco, ma sotto c’era il desiderio di un’esercitazione reale. Il titolo del corto era La guerra bene. Impiegavano armi e bombe finte, un divertimento da squilibrati. Diciamo che il corto intendeva essere una critica di una certa gioventù borghese anni Sessanta.

 

IS: Era un corto autofinanziato o allora c’erano dei produttori?

RF: In quegli anni vigeva un sistema per cui i cortometraggi venivano distribuiti nelle sale cinematografiche prima dei film e ricevevano dei premi governativi, cioè finanziamenti piuttosto cospicui. Allora c’era un’industria fiorente del documentari. Ricordo che un pugno di produttori, per lo più agganciati ai carri democristiani e socialisti, si spartiva il mercato: la Documento film, Giorgio Patara, i fratelli Nasso. Quell’industria venne a crollare negli anni Settanta quando sono venuti meno i contributi. I primi a soffrirne furono soprattutto i documentaristi, che di colpo si trovarono senza committenti. Si spiega così la scarsa vocazione al documentarismo da parte della nostra industria, nonostante i molti talenti che avevamo e che si sono rifugiati  a lavorare all’estero. 

 

IS:  Il tuo secondo corto?

RF: Lo realizzai l’anno dopo, prodotto dai fratelli Nasso. Era la storia di una ragazza, un po’ ribelle e poco conformista. Non lo ricordo neppure bene, anche perché nel 1966 ero già immerso nella scrittura di quello che sarebbe stato il mio primo film: Escalation. Leopoldo Trieste, attore, regista, drammaturgo, grande amico di Fellini, si era prestato a  recitare nel mio saggio di diploma al Centro Sperimentale (ispirato al racconto di Sartre, Erostrato) e mi presentò al produttore che aveva appena finanziato A ciascuno il suo di Elio Petri. Si chiamava Giuseppe Zaccariello e aveva fatto soldi, così dicevano, come industriale  di ceramiche a Sassuolo, nel modenese. Ora aveva deciso di investire nel cinema. Trieste gli diede da leggere la mia sceneggiatura. Gli piacque. Decise di farmi debuttare. Budget del film cento milioni di lire. Fu il suo più grande successo, che gli consentì di produrre altri film, che però andarono tutti male. Peccato, perché i produttori di allora erano gente che rischiava in proprio. Per questo erano più liberi e coraggiosi di quanto non siano ora, visto che dipendono in gran parte dal finanziamento della televisione. 

 

ESCALATION

 

IS: Escalation è un film sarcastico, irridente che tiene ancora oggi magnificamente. E’ divertente, fresco, ironico. Rivedendolo mi sembra che hai voluto ridicolizzare un po’ troppo Lino, il protagonista che appare, sin dalle prime battute, capriccioso, infantile e piagnucolone. Non mi convince la sua rapida trasformazione, in un uomo cinico e crudele, in un marito che, dopo aver scoperto il vero volto della sua amata, si sbarazza di lei senza alcun senso di colpa. Il passaggio tra il Lino sognante, angelico, innocente, ingenuo, in quello mi sembra troppo repentino.

RF E’ probabile, sì… Ma sai Escalation non è un film realistico, è quasi una favola. Da parte mia non c’è mai stata una grande empatia verso il suo protagonista, che per quanto puro e candido alla fine diventa pur sempre un assassino. Il film è anche un apologo se vuoi sul ’68, un movimento spontaneo, iniziato su basi pacifiste e neppure tanto politicizzato, che sotto il dominio dei cosiddetti gruppuscoli è diventato via via sempre più irriconoscibile e deviato.

 

IS: Il titolo Escalation fa riferimento ad una scalata che coinvolge non solo Carla Maria ma anche lo stesso protagonista?

RF: L’idea del titolo era nell’aria. Allora si parlava di escalation militare. Non dimenticare che l’idea del film fu partorita durante la guerra in Vietnam. Pensai che ci fosse una certa familiarità con la crescita del protagonista verso la violenza. Ovvero verso la folle decisione di ammazzare la moglie. Così pure intendevo sottolineare la scalata di Carla Maria, che tradisce la fiducia di Luca, per allinearsi con il padre industriale (un insolito Gabriele Ferzetti).

 

IS: La critica lo osannò. Pochissimi registi italiani hanno avuto un esordio così fulminante e il tuo film è stato paragonato ad altri due capolavori del cinema italiano di quegli anni: I pugni in tasca di Marco Bellocchio ed a Grazie zia di Salvatore Samperi..

RF: E’ vero: il film ebbe un esordio come dici tu fulminante. Quando però rifiutai i premi, tra cui la Grolla d’oro a San Vincent, i critici che prima mi avevano osannato cominciarono a capire che non ero fatto di materiale maneggevole. Da allora cominciarono a guardarmi con sospetto. Grazie zia è venuto dopo Escalation. Il titolo del film l’ho dato io stesso a Salvatore Samperi, dopo averne scritto la prima versione del soggetto,  anche se non compaio nei titoli. Samperi frequentava il Centro Sperimentale come uditore e nell’ultimo anno era diventato una specie di mio assistente, nel senso che mi aiutò a realizzare il saggio di diploma. Era cresciuto tra noi un rapporto d’amicizia e a un certo punto mi propose di scrivere un trattamento su una storia che lui aveva in mente, tra una zia e il nipote. A quel tempo, mi guadagnavo da vivere scrivendo sceneggiature per terzi, in particolare per il produttore di Zorba il greco, il film con Anthony Quinn. Il suo nome era  Anis Nohra. Mi faceva lavorare come “nero”, per abbozzare soggetti, sviluppare sceneggiature, etc.

 

IS: Facevi il ghost-writer?

RF: Sì, anche se nessuno di quei progetti venne poi trasformato in film. Samperi apprezzava i miei scritti e decise di affidarmi la scrittura del suo soggetto. Una volta terminato, si era anche messo in testa che dovessi interpretare io il ruolo del protagonista. Mi sono rifiutato non avendo nessuna capacità di stare davanti alla macchina da presa. Odio persino essere fotografato, figurarsi recitare. Samperi ci rimase male perché lo ritenne un atto di sfiducia nei suoi confronti. Per fortuna che la proposta si è fermata lì. Avessi mai accettato, il suo film sarebbe stato un disastro. La scelta successiva, Lou Castel, che tra l’altro frequentava il Centro con l’idea di diventare regista, è stata perfetta, anche se poi i critici rimprovereranno a Samperi di scimmiottare Bellocchio, che aveva appunto esordito con Castel protagonista. 

 

IS: Come mai non compari come soggettista di quel film?

RF: Perché dopo, altri hanno scritto la  sceneggiatura e se devo essere sincero non ero molto convinto della sua struttura. Allora ero molto pragmatico e il fatto che Samperi mi avesse retribuito, se ricordo bene con circa trecentomila lire, era per me  più che appagante. Basti pensare che vivevo con una borsa di studio mensile del Centro di cinquantamila lire e stentavo ad arrivare a fine mese. 

 

IS: C’è molto del film rispetto al tuo trattamento?

RF: Ci sono parecchie cose, ma poi il film è diventato stoffa di Salvatore. Io mi sono limitato a  a mettere in forma di trattamento quello che lui raccontava. Aveva in mente questa storia, non sapeva bene come svilupparla. Io l’ho sviluppata e chiuso lì.

 

IS: Ritorniamo a Escalation…

RF: Il film ebbe un notevole successo sia commerciale che di critica, anche all’estero specie in Inghilterra, Germania e in molti altri paesi, persino in America latina. Credo che nell’anno della sua uscita, 1968, sia stato tra i più grandi successi internazionali di un regista italiano. Per di più esordiente. Avevo allora 25 anni.

 

IS: Perché dipinge il corpo di lei? Lei è morta… Un atto d’amore nei confronti di una donna che l’ha soggiogato e tradito, un prendersi cura di una donna di cui è ancora innamorato, del suo corpo? E la cremazione, un rito purificatore, a conferma che non la odiasse, ma che ne fosse ancora innamorato?

RF: Perché la dipinge? Devo dire che sono sempre stato un po’ naif, poco strutturato e spesso più istintivo che razionale. In quegli anni avevo un amico pittore, anche lui torinese, Aldo Mondino (poi

diventato tra i pittori più apprezzati della sua generazione). E’ probabile che sia rimasto influenzato

da questa amicizia, come pure di un altro pittore che frequentavo, Mimmo Rotella, già allora ritenuto un grande della pittura contemporanea. Mi ammaliavano le immagini plastiche, i colori spinti, in definitiva l’anima della pop art, di cui apprezzavo soprattutto la rottura con l’arte tradizionale e il rapporto di odio-amore con la società industriale. Di qui, l’idea di affrescare il corpo della psicotecnica, un po’ per ricordare il passato hippy del protagonista e allo stesso modo per effettuare una specie di sfregio nei confronti di chi lo aveva portato alla soglia della criminalità.

 

IS: Come è nata l’idea della scena finale del film con il funerale sulla spiaggia sulle note della banda jazz in stile New Orleans?

RF: Stavamo girando sulla spiaggia di Rosignano Solvay delle scene. La ricordo con quella sua sabbia quasi rosa e il mare colorato di azzurro per gli scarichi dell’industria locale. Una mattina guardando le ciminiere fumanti alle spalle della spiaggia mi è venuta l’idea che quello scenario tipicamente postindustriale avrebbe potuto costituire una scenografia straordinaria per ambientarvi un funerale grottesco e beffardo all’insegna del fantastico. Come se non bastasse, decisi anche di impiegare una bara di ghiaccio, ultimo atto in vista della presa del potere da parte del giovane protagonista nei confronti della volontà paterna ormai piegata e sottomessa. 

 

IS: Nelle tue interviste del tempo sottolinei sempre l’uso del colore, una ricerca particolare... Cito testualmente: “Il colore è molto crudo, crudele, proprio di una società che aggredisce i sensi e l’intelletto”.

RF: Sì, sono attento ai colori, alle presenza sceniche, alle forme e al significato delle ambientazioni. Penso che nei film che faccio c’è sempre una particolare attenzione alla presenza estetica. Alcuni, tra l’altro, me la rimproverano, come se questo tipo di ricerca fosse sinonimo di estetismo, il che a me proprio non sembra.

 

IS: Il didascalismo, il calligrafismo, la leziosità…

RF: Penso che il cinema debba essere soprattutto un piacere per gli occhi. In Escalation per esempio c’è un tipo di arredamento molto avveniristico, quel letto nuziale triangolare, le pareti della casa ultra colorate, il ruolo del design… Tutto ciò non lo vedo come calligrafismo, ma al contrario come una dominante della struttura narrativa. Mi sembra di ricordare che qualche critico, se non sbaglio Tullio Kezich, aveva accostato la forma del film al fumetto. Paragone pertinente.

 

IS: La scelta degli attori? Lino Capolicchio non aveva fatto prima nessun film..

RF: No. Era stato scoperto dal mio produttore ed esordì insieme a me. In seguito venne promosso a protagonista da Vittorio De Sica nel film sui Finzi Contini, premiato con l’Oscar.

 

IS: Claudine Auger é perfetta…

RF: E‘ arrivata all’ultimo momento. Avevo scelto una attrice svedese vista in un film di Ingmar Bergman. Non ricordo se fosse Liv Ullmann o Harriet Anderson, o forse Gunnel Lindblom.  Fatto sta che l’attrice arriva a Tirrenia dove avevamo da poco iniziato le riprese del film. Il guaio è che ha appena partorito e porta i segni della gravidanza. Mi resi subito conto che non avrebbe potuto in quelle condizioni girare le scene di nudo che avevo previsto in sceneggiatura. Il produttore insisteva perché la trattenessimo, mentre io mi opponevo. Decisi di affrontare l’attrice e dirle in tutta sincerità il mio pensiero. Credo che la mia sincerità l’abbia convinta. Fu molto  comprensiva e decise di tornare in Svezia senza conseguenze contrattuali. A quel punto eravamo però senza attrice. Qualcuno, forse lo stesso produttore, propose allora un’attrice che aveva appena lavorato al fianco di James Bond, la francese Claudine Auger. Non sapevo chi fosse. Ma accettai di buon grado di incontrarla. Si rivelò subito molto simpatica e disponibile....

 

 

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