Intervista a Gianni Amelio

 

Con la sua aria sbarazzina e gli occhi acuminati come una lama tagliente, Gianni Amelio si lascia dondolare, dolcemente, dai ricordi:

 

“Ho fatto autonalisi attraverso il film” mi confessa, sorridendo. Poi, con aria sorniona, si accarezza la folta barba e mi dice:

“Voglio mentire solo quando faccio un film. Ho frequentato le sale cinematografiche, fin da quando ero bambino. Ricordo che il primo film che vidi fu “Gilda” di Charles Vidor. Potevo avere quattro o cinque anni. Al cinema ci andavo con mia nonna, una donna straordinaria che adesso ha centouno anni e con la quale ho trascorso la mia vita. Lo aveva scelto lei, a me piacevano i film di cappa e spada e d’avventura. Al cinema ci stavo delle ore. Un tempo si poteva entrare quando si voleva e si potevano vedere di seguito più spettacoli. Si poteva entrare nel pomeriggio ed uscire la sera. Il cinema era un vizio, come il dolce la domenica.”

 

Mentre lo ascolti sei spinto, inconsapevolmente, a riandare indietro a quei “pidocchietti”di un tempo, immersi nel fumo delle sigarette ed inondate da quel fascio luminoso che fendeva il buio della sala. Amelio si racconta con pacatezza e senza compiacimenti:

“Ho vissuto insieme a mio padre solo un anno e mezzo. Poi mio padre è partito per l’Argentina. Come suo padre, un uomo che non ha mai conosciuto. Emigrante. Ho vissuto con mia madre  e mia nonna. Mia madre era ancora una bambina, aveva sedici anni quando mi ha dato alla luce e per quasi tutta la vita ha fatto la “vedova bianca”. Mio padre l’ho visto la prima volta a diciotto anni. Questa ossessione del padre me la porto appresso da quando sono nato. In tutti i miei film ho “solo“raccontato questo: il rapporto tra un padre ed un figlio, tra un fratello maggiore ed uno minore, tra un maestro ed un allievo. Nel mio primo film “La fine del gioco” un regista televisivo fa un film su un ragazzo calabrese dodicenne rinchiuso in carcere; ne “La città del sole”, il monaco incontra un pastorello che ha bisogno di un maestro; ne “Il piccolo Archimede, Alfred, il vecchio studioso scopre Guido un piccolo genio; ne “Lamerica” c’è mio padre…”

Amelio non si recinta dietro silenzi o diplomatiche omissioni e con le sue storie sa “colpire al cuore”.

 

Quale scena ti porti dentro?

 

Mi porto soprattutto “Lamerica” perché lì c’è stato uno scavo particolare, un risultato di un altro progetto. Inizialmente volevo fare un film su mio padre, sulla sua partenza in Argentina e sul suo ritorno ma poi non l’ho voluto più fare e l’ho scritta di fantasia. Ma la faccia di quel vecchio e la frase finale del film di Spiro “Sono stanco ma voglio stare sveglio quando arrivo a New York” è una cosa che ho sentito dire da mio padre…Nella mente di mio padre sono rimasto il “bambino”, “il piccolo” e nella sua testa e nel suo cuore voleva avere un bambino. Appena tornato in Italia, infatti, ha avuto un altro bambino da mia madre. Io mi sentivo escluso allora dalla costituzione di questa “nuova“ famiglia e quando mia madre è morta, a soli trentotto anni, mio padre si è poi risposato ed ha avuto due figli nel secondo matrimonio. Anche lui è stato sfortunato ed è morto a cinquantanove anni. Otto anni fa, con mio figlio che ho chiamato Giovanni, sono andato in Argentina a Rosario a vedere dove aveva vissuto mio padre ed i luoghi dove aveva vissuto quegli anni.

Non c’è rancore, né rabbia nel suo racconto, né emergono tensioni e conflitti irrisolti ed inappagati. Il tono non si fa mai dimesso anche quando, nostalgicamente, si lascia andare al suo più grande rimpianto:

“Mio padre sia morto il giorno della prima di “Colpire al cuore”. Quel film vinse quell’anno il Nastro d’Argento…”

 

Che consiglio daresti oggi ad un padre?

 

“In “Colpire al cuore” c’è uno schiaffo che Jean Luis Trintignan dà al figlio. Ma è uno schiaffo che il figlio si fa dare dal padre. In tutto il film sente il padre che vuole fare l’amico e il figlio ha bisogno, invece, di un padre. Credo che i figli, oggi, pretendono questo, anche quando vogliono un rapporto amicale. Il figlio è il più debole tra i due ed ha bisogno di certezze.  Non è un caso che nella sequenza  successiva, c’è il battibecco tra padre e figlio e Jean Luis Trintignan dice al figlio:”Vorresti un padre che ti dice dov’è il bene e dov’è il male? Ma padri così perfetti non ce ne sono più”. E il figlio non può che rispondergli: “Figli perfetti ancora meno”.

Abbiamo parlato di padri, di figli. E le donne? Che ruolo occupano nei tuoi film?”

“Le donne non hanno un ruolo primario ma hanno un ruolo importante e fondamentale. La Morante di “Colpire al cuore” è la parte sana di quella famiglia scombinata. Nell’ultimo film “Le chiavi di casa” il ruolo femminile è importante perché si contrappone a quello maschile e vi è tracciato un rapporto padre-figlio, riletto, rispetto ai precedenti, questa volta in maniera completa, gioiosa e liberatoria."

 

Hai dato alle stampe recentemente lo splendido volume “Il vizio del cinema”, edito da Einaudi. Cosa ti ha spinto a tuffarti nella scrittura?

 

“Il volume raccoglie le recensioni che ho scritto per anni per “Film Tv”. Chi non è vissuto prima della televisione non sa che cos’è il cinema. Una volta c’era il concetto di “perdere” il film. Giuseppe Marotta scrisse un libro che era una raccolta delle sue recensioni per l’Europeo e lo intitolò : “Visti e perduti”, titolo che fotografava lo stato d’animo dello spettatore d’allora. Quando un film si proiettava in provincia, te lo perdevi e non lo rivedevi più. E’ forse per questo motivo che non rivedo mai un film. Bisogna sempre fidarsi della prima volta, di quell’innocenza  che si aveva nel momento in cui l’immagine ci veniva addosso dallo schermo. Il cinema va visto in una sala perché la sala è un po’ come la chiesa, per chi va a sentire la messa la domenica. Adesso abbiamo una tale facilità a vedere e ri-veder i film che nello scaffale, accanto ai libri, ho una serie di DVD che ho comprato ma che non ho mai visto. Da una parte questo ci da una grande libertà, dall’altro elimina l’intensità per questo evento che è il cinema.

 

Per l'intervista completa si rimanda al volume "Psycho cult" di Ignazio Senatore (Centro Scientifico Editore-2006)

 

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