Amarsi (When a man lovers a woman)

di Luis Mandoki con Meg Ryan, Andy Garcia – USA – 1994 - Durata 97’

 

La dolce e sorridente Alice (Meg Ryan) madre dei piccoli Jess e Casey è felicemente sposata con Michael (Andy Garcia) pilota d’aereo. Già dal mattino Alice non disdegna di bere un goccio d’alcol. ed un giorno, sempre più brilla, dopo aver fatto il pieno di vodka  schiaffeggia la figlia, sviene in bagno ed è ricoverata in una clinica per alcolisti. Ma la cura non da gli effetti sperati e ritorna a casa è sempre più nervosa, instabile ed insoddisfatta. Il matrimonio sta andando a rotoli e Michael prova, invano, a frequentare gli Alcolisti Anonimi. Ma la coppia cola a picco, Alice riprende a bere ed i due si separano. Dopo affanni e tormenti, Alice riesce a ritrovare se stessa ed, in un finale consolatorio, dopo aver raccontato in  una riunione degli A.A la propria storia alcolomanica, ritorna tra le braccia di Michael.

Pellicola zuccherosa che mette in scena la classica famiglia da spot pubblicitario con un  marito atletico ed affascinante ed un mogliettina dal faccino solare e pulito ma con la mente perennemente annebbiata dall’alcol. L’impianto complessivo della vicenda scricchiola, gli snodi narrativi non sono oleati alla perfezione e la confezione patinata rende il dramma in cui si agita la protagonista poco credibile. Alice pianga e si dispera ma il suo dolore non trafigge il cuore dello spettatore.

Il regista scivola spesso nel sentimentale, non lesina qualche piccolo intervento dal sapore moralistico e ci mostra come Alice che, dietro il faccino angelico ed i suoi smaglianti sorrisi, nasconde un mondo d’inquietudine e di tormenti. Mandoki non scava a fondo nel personaggio di Alice e dopo aver accennato ad un suo doloroso passato (padre alcolizzato ed una madre che la faceva sentite una nullità) lascia intuire che la sua scelta alcolomanica sia legata al difficile, disarmonico e conflittuale rapporto con suo marito, un uomo distante emotivamente, troppo sicuro di sé e che la squalifica come madre di fronte alle figlie. Nel corso del film Alice prova a nascondere al marito la propria condotta alcolomanica ma poi, tra le lacrime, gli confessa: “Comincio a bere alle quattro del mattino e continuo. Bevo nel bagno, nello stanzino e nella stanza delle bambine quando non ci sono. Non ti sei accorto che quando sto per uscire, io torno sempre in casa un attimo. Ho bevuto anche per la festa di Casey. Bevo un litro al giorno: vodka, così si sente di meno. Non voglio sentirmi più colpevole, arrabbiata, triste o depressa o frustrata o confusa. Solo una volta, per cinque minuti vorrei sentirmi bene.” In più occasioni  di comprendere le ragioni della propria sofferenza ed al marito in lacrime confessa: “Mi sto aggrappando con le unghie. Non voglio più sentirmi arrabbiata,  non voglio più sentirmi colpevole, triste o depressa, confusa. Solo una volta, per cinque minuti vorrei sentirmi bene. Piantala di consolarmi Michael, io non lo so cosa devo fare. Ogni volta che mi guardi in quel modo io mi sento venire la pelle d’oca. Mi fai sentire come uno stupido, piccolo, patetico animale. Io penso che ti amerei di nuovo se tu, per una volta sola, dicessi. Non lo so.”. Michael è descritto come un marito innamorato della moglie ma un po’ troppo distante emotivamente e giudicante. Nel corso della vicenda accetta di malgrado di sottoporsi ad una terapia di coppia ma sul finale, avendo compreso che solo se si mette in discussione può aiutare se stesso e la moglie, frequenta un gruppo di familiari di A.A. a cui racconta la propria storia e come è riuscita a debellare il demone dell’alcol: “Salve, mi chiamo Alice e sono alcolizzata. Sono sobria da 124 giorni. Ho bevuto la mia prima birra quando avevo nove anni. Mio padre è un alcolista e a mia madre piaceva dare la colpa al suo cattivo esempio se io bevevo. Così ci colpiva tutti e due. Comunque, mi è piaciuta quella birra e quelle che sono seguite. So che sono stata fortunata perché certe volte portavo fuori le mie bambine ed ero completamente sbronza. Un sabato ho portato la mia piccola con me e quando sono tornata a casa, mi sono accorta che non c’era più e non mi ricordavo dove ero stata. Non avevo idea di dove fosse. Ho passato tre o quattro ore a chiamare tutti i negozi che frequentavo, finché, il ragazzo del fornaio bussò alla porta: avevano trovato il mio indirizzo su un assegno. L’ho ricompensato, ma non sono più entrata in quel negozio. Il fondo l’ho toccato 184 giorni fa, quando la mia bambina mi ha visto mandare giù un’aspirina e vodka e l’ho picchiata. E quando sono svenuta, lei era sola con me e ha creduto che fossi morta. E per tutta la vita lei, di questo poterà il segno. Lo so che devo perdonarmi per quello che ho fatto a mio marito. E’ spaventoso quanto ci si può odiare per essere deboli e meschini. E lui, non poteva salvarmi, così gli ho scaricato tutto addosso, ho dato a lui ogni colpa, ma non bastava mai. Mi capite? Quando ha cercato di aiutarmi gli ho detto che mi faceva sentire piccola ed inutile, ma non è così. Facciamo tutto da soli…L’ho allontanato da me perché sapevo che se avesse visto sul serio come ero dentro, non mi avrebbe amata. Siamo separati. Ora lui, se n'è andato via. Ed è stato così duro implorarlo di non restare. Non lo so se avrò mai un’altra occasione ma adesso devo convincermi che ne merito una, come la meritano tutti.”

Il titolo originale fa riferimento ad una canzone degli Anni Sessanta cantata da Percy Sledge..

 

 

Stralcio da “Vero come una finzione” Springer Editore – 2010 di Matteo Balestrieri, Stefano Caracciolo, Riccardo Dalle Luche, Paolo Iazzetta, Ignazio Senatore

 

 

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